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Nino De Cristofaro (docente, CESP Sicilia) ha proposto un primo bilancio sugli ultimi due anni scolastici scanditi dalla diffusione della pandemia, con effetti e modalità differenti in base alle regioni e agli ordini di scuola.
I limiti dell’azione di governo
Problemi sicuramente difficili da affrontare durante il primo lockdown, ma figli di scelte governative sbagliate dal settembre 2020, visto che le richieste più che ragionevoli, avanzate da Cobas, Priorità alla Scuola e altri movimenti sono rimaste inascoltate. Nessuna riduzione delle classi pollaio, no a nuove assunzioni di personale (la maggior parte delle scuole non ha utilizzato tutte le risorse relative al pur discutibile organico Covid), nessun investimento nell’edilizia scolastica, neanche per l’acquisto dei dispositivi di protezione, ci riferiamo ai sanificatori. Lo stesso governo ha dovuto ammettere il fallimento della DaD, proponendo lo svolgimento di corsi di recupero (PIA e PAI) a conferma, al contempo, della perdita di conoscenze e dei deficit prodotti dal punto di vista relazionale.
Un fallimento, quello della DaD, iscritto certo nello strumento utilizzato, ma accentuato dalla pratica, generalizzata, di riprodurre on line il setting scolastico. Di qui l’apoteosi della lezione frontale, la riproposizione dell’orario scolastico tradizionale, il tentativo di rendere oggettive le interrogazioni, magari bendando gli allievi. E quando, seppure parzialmente, si è rientrati in classe, la corsa a recuperare programmi, valutazioni, PCTO e Invalsi: ovvero, tutto quello che non si sarebbe dovuto fare. Il tutto è avvenuto con la complicità di molte/i docenti che hanno fatto della programmazione un rituale inutile, che hanno accettato rubriche di valutazione standardizzate, che hanno rinunciato a difendere gli Organi Collegiali. Organi che – in maggioranza – sono stati zitti di fronte all’ennesimo frutto avvelenato della cosiddetta Buona scuola: il curriculum dello studente, uno strumento utile solo a sottolineare quanto l’aspetto economico incida sul diritto all’istruzione. Altro che scuola della Costituzione. Parlare di valutazione significa perciò interrogarsi sul senso della scuola.
Tutti insieme e in cordata
Giovanna Mezzatesta (DS del Liceo Bottoni di Milano), in premessa, ha affermato che, con la DaD, non si è fatta scuola, solo lezioni/trasmissioni frontali e tentativi – impossibili – di misurazione delle performance; in una sorta di tempo sospeso prima e di corsa contro il tempo, dopo, per recuperare programmi e classificare i ragazzi. Con tante contraddizioni. Nella sua scuola, ad esempio, si è scelto di non fare i PCTO, vista l’assurdità di svolgere online l’alternanza scuola-lavoro, mentre i test Invalsi, paradossalmente, sono stati percepiti dagli allievi come un momento di pausa per sottrarsi alla compulsività delle interrogazioni. In questa situazione, è emersa la difficoltà di interpretare il voto come valutazione di un processo complessivo e non come risultato della somma delle singole prove, un processo nel quale l’obiettivo della scuola dovrebbe essere quello di far arrivare tutti gli alunni alla vetta, tutti insieme e in cordata.
Occorre, perciò, rivedere il nostro modo di agire, altrimenti, la valutazione serve solo a giudicare, non a modificare i processi. Per esempio si potrebbero segnalare gli errori commessi ai ragazzi e riproporre loro la stessa prova; ancora, non si dovrebbero privilegiare le verifiche scritte, spesso giustificate con il fatto che il tempo non è sufficiente per svolgere le interrogazioni orali, come se i due momenti fossero perfettamente intercambiabili. Una valutazione parziale determina peraltro un pessimo rapporto con le famiglie interessate solo ai numeri e, di conseguenza, orientate verso un rapporto conflittuale con la scuola, come dimostra l’esplosione dei ricorsi. In questo quadro, uno spiraglio positivo, ha concluso la relatrice, si può intravedere nelle parole del Presidente della Corte Costituzionale che ha espresso fondati dubbi sul Curriculum dello Studente.
Tocca al docente garantire l’armonia
Katia Perna (DS del CD Rapisardi di Catania) ha ricordato le parole fondamentali della cosiddetta didattica delle competenze e della conseguente valutazione standardizzata: valorizzazione degli studenti, autovalutazione, ricerca dell’essenzialità, progettazione flessibile. Perna ha poi evidenziato il fatto che nella scuola primaria è stato formalizzato, nel dicembre 2020, il superamento del voto numerico. Si tratta di un provvedimento positivo, atteso da tempo, da leggere in modo articolato. Bene aver ribadito che la valutazione ha una funzione formativa e non un semplice, e riduttivo, obiettivo di certificazione. Tale affermazione sembra però in contraddizione con la richiesta di una descrizione analitica affidabile e valida dei livelli raggiunti dall’alunno, che rimanda all’idea, discutibile, di individuare criteri oggettivi di valutazione. Occorre, perciò, evitare che i quattro livelli individuati corrispondano ai vecchi voti (il livello avanzato, per esempio, a una valutazione di 9 o 10).
In sostanza, una riforma importante da cui partire, a patto che la progettazione non si riduca a routine, ma continui ad essere elemento centrale di una riflessione collettiva e strumento di verifica del lavoro. Individualizzazione e personalizzazione degli apprendimenti sono concetti importanti, purché non vengano utilizzati per rimettere in discussione il gruppo classe che deve rappresentare il luogo dove si cresce insieme, rispettando tutte le differenze. E, come dice Pennac, è vero che ogni studente suona con il suo strumento, ma tocca al docente garantire l’armonia. Infine, bisogna ragionare sul fatto che questi cambiamenti sono stati imposti dall’alto senza una preventiva discussione fra i docenti, quindi è importante riaprire il dibattito e il confronto sulla valutazione, perché dietro le diverse pratiche c’è sempre un’idea di società, di cittadine/i e da formare.
Opporsi alla svalutazione degli apprendimenti
Serena Tusini (docente, Esecutivo Nazionale Cobas Scuola) si è chiesta innanzitutto se i positivi cambiamenti registrati nella scuola primaria rappresentino realmente la proposizione di un nuovo paradigma, un’inversione di tendenza rispetto a una valutazione standardizzata, che mette al centro la certificazione e pretende di annullare la soggettività. In effetti, la valutazione di sistema esterna e standardizzata è penetrata nella scuola, come testimoniano anche gli stessi libri di testo (esercizi, prove strutturate) e la torsione subita dalle materie: nel caso della prova di italiano, ad esempio, il tema tradizionale è stato sostituito dalla comprensione/analisi del testo, che annulla qualsiasi soggettività.
Una standardizzazione introdotta gradualmente, che oggi, però, si avvale di modelli proposti direttamente dal Ministero, nei quali viene rovesciato il rapporto fra apprendimento scolastico e lavoro extrascolastico, con il secondo che prende il sopravvento. Si pensi alla certificazione delle competenze, alla fine della scuola secondaria di primo grado, accanto alle valutazioni su Italiano, Matematica e Inglese (non a caso le materie dei quiz Invalsi): essa dà spazio alla valutazione delle competenze sociali e civiche, allo spirito di iniziativa, al tema dell’imparare a imparare, costringendo il docente a valutare percorsi esterni ai quali non ha contribuito, tipici, peraltro, di un colloquio di lavoro. In sostanza, il voto finale viene relegato in secondo piano rispetto all’importanza dei modelli di certificazione riconosciuti nel mercato del lavoro. Arricchire il curriculum e sommare certificazioni: due strumenti decisivi per rimettere in discussione il valore legale del titolo di studio. Se la scuola non sarà capace di ripensare se stessa, di opporsi alla svalutazione degli apprendimenti, subiremo proposte che arrivano dall’alto, finalizzate a ridurre il peso della scuola pubblica nella società.
La valutazione di chi vive la scuola
Eseguire velocemente e razionalmente: questa per Stefania Pisano (docente LC Cutelli di Catania) la cifra fondamentale della scuola attuale, con l’obiettivo di sorvegliare e controllare la condotta e le abitudini di ciascuna/o per migliorarne le prestazioni e collocarla/o nel posto più utile. La logica dei test e una docimologia erroneamente individuata come neutra e scientifica cercano di raggiungere questi obiettivi, riducendo al minimo gli sforzi: una volta definito, infatti, l’apparato funziona “autonomamente”. In sostanza, una scuola pensata e vissuta come panopticon, dove il “centro” controlla ciò che accade, per migliorare le prestazioni, dove è evidente il legame fra sapere e potere: più informazioni si conoscono, più efficace è la sorveglianza. Di più: non ci accorgiamo di essere sorvegliati; le trasgressioni sono mercificate, trasformate in business. Le macchine di sorveglianza e i loro algoritmi prevedono la domanda, anticipano e creano desideri, modificano l’esperienza, con il rischio, come afferma Shoshana Zuboff, che il capitalismo di sorveglianza farà all’umanità ciò che il capitalismo industriale ha fatto alla natura. È in questo contesto che alla “vecchia valutazione”, individuata come arbitraria, sono state contrapposte teorie pseudoscientifiche/oggettive – di fatto fondate sul principio di autorità – ed è stato proposto un principio regolatore collocato al di fuori di ciò che valuta, con la conseguenza che, invece dell’arbitrio, si determina l’abuso – che rende scientifico l’arbitrio -: infatti, la valutazione automatica non si limita a fotografare l’esistente, ma determina e modifica la realtà. Ciò che i ragazzi devono imparare diventa funzionale al superamento dei test, ai colloqui di lavoro. D’altronde così i docenti si spogliano di una parte delle loro responsabilità, rinunciano a monitorare i processi, si sottraggono alla fatica del giudizio. Siamo chiamati a scegliere. Da un lato c’è un sistema di test e crocette, da concludersi in tempi contingentati, che attiva euristiche automatiche, tipiche del teaching to test, con l’attenzione focalizzata sulle risposte e non sulle domande, individuate peraltro da un programmatore – certo non esente da pregiudizi – un sistema nel quale a risultati eccellenti (si pensi alle certificazioni linguistiche) spesso non corrisponde una reale conoscenza critica della disciplina. Dall’altro lato vi è invece un sistema articolato, problematico e ragionato, che chiama alla riflessione, coerente con lo sviluppo del dialogo educativo e che non ha l’opinione pubblica e/o il mercato come riferimento pedagogico e didattico. Ovvero, la valutazione di chi vive la scuola e di chi pratica le discipline, di chi non ha rinunciato a pensare la scuola come ascensore sociale.
Ci piace, perciò, concludere con le parole di Agnes Heller: “Se qualcuno dovesse chiedere a me, come filosofa, che cosa si dovrebbe imparare al liceo, risponderei: prima di tutto, solo cose inutili, greco antico, latino, matematica pura e filosofia. Tutto quello che è inutile nella vita. Il bello è che così, all’età di 18 anni, si ha un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose”.
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