photo credits: Jelleke Vanooteghem
Dopo alcuni anni di sperimentazione della legge 107/2015 oggi possiamo dire che tutte le più nefaste previsioni che avevamo formulato si sono puntualmente realizzate. Anzi, la realtà ha superato l’immaginazione e le condizioni della scuola pubblica sono più catastrofiche che mai. Si sono analizzate, con grande dovizia di particolari, le incongruenze di un dispositivo legislativo che è lungi dall’essere completato in tutte le sue articolazioni ma che ha già manifestato limiti e storture. È sufficiente pensare, per fare un paio di esempi, al sistema dell’alternanza scuola-lavoro, alle modalità di reclutamento del personale o allo svuotamento di facoltà decisionali degli organi collegiali, e si potrebbe continuare a lungo.
Tuttavia, il problema è, come più volte si è sostenuto anche sulle pagine di questo giornale, che gli svariati tasselli della cosiddetta Buona scuola, dai più indigesti a quelli meno detestabili, compongono un sistema coerente che va analizzato anche per gli effetti complessivi che questo determina. Come se la risultante del funzionamento totale fosse maggiore degli effetti derivanti dal singolo meccanismo considerato, per dirla con Hegel, astrattamente, ossia esaminato e osservato separatamente da tutti gli altri. Assumendo una visuale di questo tipo diventa più agevole considerare il fatto che dietro la mancanza di senso di molti degli interventi particolari predisposti dal legislatore si nasconde un disegno complessivo che ha come unico obiettivo quello di distruggere la scuola pubblica come spazio per la formazione e l’esercizio delle prerogative di libertà e cittadinanza attiva imposte dal dettato costituzionale, per realizzare, al contrario, la penetrazione oramai pervasiva di logiche di mercato e di profitto.
Sorvegliare e punire
In effetti la controriforma voluta da Renzi ha avuto esiti che rischiano di radicarsi nel profondo delle coscienze dei singoli operatori della scuola i quali sono stati portati a introiettare modalità di pensiero e di comportamento che fino a pochi anni fa erano impensabili all’interno della maggior parte dell’istituzioni scolastiche. È cambiata l’antropologia scolastica, si potrebbe dire, l’atmosfera cognitiva e emotiva, il contesto socio-affettivo nel quale svolgere il proprio lavoro sempre più burocratizzato, e sono diventate sempre più operanti pratiche incentrate sulla competizione, sulla valutazione e sul controllo. Occorrerebbe forse rievocare l’analisi foucaultiana del rapporto che lega il sapere al potere per accorgersi, anche superficialmente, della profonda mutazione che ha travolto il gruppo classe e il lavoro docente: sorvegliare e punire, avvertiva Foucault. Determinando, non a caso, un disagio crescente che si traduce in un diffuso malessere psicofisico degli adolescenti e degli stessi docenti. Si pensi alle tante forme di ritiro sociale che irretiscono ampie porzioni di giovani delle nuove generazioni o al fatto che la classe insegnante è quella, tra le figure professionali, ad essere maggiormente colpita da processi patologici che rimandano alla sindrome del burnout. Per non parlare della crisi di autorevolezza sociale del ruolo dell’insegnante considerato dalla maggior parte delle famiglie come una vittima sacrificale su cui inveire e su cui sfogare, per qualsiasi motivo, la propria frustrazione e la propria aggressività.
Elefantiasi burocratica
Sono incomparabilmente aumentate le procedure e le mansioni di natura burocratica: compilazione di moduli, stesura di relazioni, correzioni di test, redazione di registri delle più svariate attività, certificazione di competenze, verbalizzazione di corsi, somministrazione di questionari di gradimento. Una montagna di documentazione, spesso cartacea, inutile e senza senso, che ha come unico obiettivo quello di aumentare la quantità di tempo di lavoro da sottrarre alla didattica e alla condivisione del sapere con i propri ragazzi. Per anni ci era stato raccontato che la scuola dell’autonomia sarebbe stata snella, flessibile e liberata, una volta per tutte, dall’elefantiasi burocratica che penalizzava e appesantiva il vecchio modello gentiliano, quasi fossimo nel socialismo reale. La scuola piegata alle logiche del capitalismo privatistico, viceversa, si rivela una grande ingranaggio totalitario nel quale ciò che conta è soltanto l’adempimento di funzioni formali e compiti cavillosi che distolgono dall’esercizio dell’insegnamento e dell’apprendimento di un sapere critico e libero. In un perverso meccanismo autoassolutorio ciò che più conta si rivela essere la manifestazione fenomenica, e per ciò stesso soltanto apparente, espressa con meccanismi di valutazione che certificano l’adeguamento virtuale agli standard imposti dal vertice piuttosto che la narrazione del reale processo di insegnamento-apprendimento, processo che segue uno svolgimento storico inevitabilmente segnato, come la vita stessa, da sconfitte e balzi in avanti, crisi momentanee e successi formativi, passaggi a vuoto e potenti appropriazioni conoscitive. Di tutto questo, nella sterminata produzione di documenti e relazioni, nemmeno l’ombra. Resta soltanto l’introiezione, spesso inconsapevole, di modalità operative e condotte pratiche che incombono su docenti e studenti senza che questi ne abbiano consapevolezza, di modelli di riferimento ottimali quasi mai perseguibili e proprio per questo fonte continua di ansia e stress, di paradigmi riduzionistici e nozionistici che producono deliranti e infinite dispute sulla natura ontologica di competenze e conoscenze.
Bieca competizione
La moltiplicazione di figure specialistiche tra i docenti (docenti tutor, figure di coordinamento, referenti di commissioni, funzioni strumentali) risponde al disegno di incrementare la diversificazione delle mansioni e i livelli di competizione finendo per svilire la dimensione, fondamentale a scuola, del lavoro cooperativo. Al di là della maggiore o minore perequazione nella distribuzione del bonus premiale, la cui consistenza è spesso ridicola, ciò che davvero è stato coronato da successo è stata l’irruzione di un clima di soffocante concorrenzialità che predilige il rapporto gerarchico e verticale con il dirigente scolastico. Si innesca in questo modo un corto circuito che contiene caratteri quasi patologici e che impedisce la realizzazione di un clima cooperativo e di autentica collaborazione. Ne consegue che aumentano le dispute e i microconflitti quotidiani nel posto di lavoro e si moltiplicano le occasioni di piccoli scontri molecolari come valvola di sfogo con la quale liberarsi delle proprie preoccupazioni lavorative e delle proprie frustrazioni professionali. Il punto è che un clima così avvelenato non può che nuocere allo sviluppo di relazioni serene e costruttive non solo tra i colleghi ma anche tra docenti e studenti i quali, vale la pena ricordarlo, dovrebbero essere il terminale di riferimento di ogni lavoro formativo e di ogni intervento didattico. Anche a questo livello della questione emerge il dato che a risultare vincenti nella gara competitiva non è detto che siano quelle attività formative indirizzate all’approfondimento critico e alla pertinenza dei percorsi didattici; piuttosto è possibile che abbiano un maggiore riscontro quelle attività formative che riscuotono maggiore successo e gradimento in termini di appeal, attrazione pubblicitaria e intrattenimento. A proposito di meritocrazia, può forse tornare utile quanto sosteneva Rousseau che indicava all’educatore l’obiettivo cui avrebbe dovuto mirare Emilio nella corsa competitiva dell’esistenza: sarebbe stato più meritevole non chi si sarebbe dimostrato vincente nella gara per il conseguimento degli ambiziosi obiettivi individualistici come il successo, il denaro o la carriera ma chi avrebbe saputo mettersi gratuitamente al servizio del bene comune e dell’utile solidale e collettivo. Non si capisce nulla del carattere democratico della nozione di volontà generale se non si tiene conto di questo presupposto concettuale.
Le intuizioni rousseauiane rimandano, a loro volta, alla necessità di formulare ancora qualche considerazione sulla spinosissima tematica della valutazione. Negli ultimi anni si è assistito a un proliferare di tecniche docimologiche, sistemi di valutazione più o meno sperimentali, tabelle più o meno strutturate per la verifica degli obiettivi di apprendimento raggiunti. Da qui questionari a risposte multiple, prove a risposte chiuse o aperte, test dei generi più svariati. Tuttavia, sarebbe il caso di chiedersi a quali esigenze e obiettivi generali risponde questa ansia contabile. La maggior parte dei dati quantitativi prodotti prolifera senza nessuna concreta ricaduta pratica, a meno che non si riconosca che l’unica finalità effettivamente perseguita sembrerebbe essere quella della autopromozione. La verità è che l’unica efficacia che si può attribuire a questi sistemi è quella relativa a comprendere se si è degli efficienti burocrati, di certo non se si è dei bravi insegnanti. Nell’insieme valutazione, sorveglianza, standardizzazione e insensatezza raggiungono l’obiettivo di introiettare la logica del controllo e a esaurire e depotenziare le istanze di libertà e creatività. Banalità del male, avrebbe detto la Arendt.
Smontare l’ideologia totalitaria
Occorre destrutturare l’ideologia superficiale secondo la quale qualsiasi ambito della società, dalla sanità all’istruzione, deve essere irreggimentato entro la logica fintamente neutra del management aziendale. È necessario svelare e smontare quell’ideologia totalitaria secondo la quale il funzionamento mercantile dell’istruzione pubblica sia una sorta di principio di realtà, qualcosa di naturale, ovvio e scontato. Il sistema della scuola pubblica è sempre più scosso dalla azione contemporanea di queste dinamiche. Per potere invertire la tendenza e ripensare a forme di costruzione e trasmissione del sapere fondate su valori cooperativi, democratici e di libertà occorre assumere la consapevolezza che un tale sistema assume sempre di più, da un lato, una natura astratta e impersonale, dove diventa sempre più complicato individuare a quale livello si collocano le responsabilità e le scelte decisionali; dall’altro lato è anche evidente che un tale sistema non può funzionare senza un certo grado di nostra collaborazione e complicità. Assumere la coscienza politica di questo doppio vincolo significa sforzarsi di uscire dalla chiusa gabbia delle insofferenze e dei disagi individuali per sperimentare vie d’uscita collettive a un problema che, non lo si dimentichi mai, è innanzitutto politico e dunque ha a che fare con la forma produttiva e riproduttiva con le quali si configura la nostra società.
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