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Mentre l’opinione pubblica è concentrata sui temi della pandemia e il dibattito politico annaspa ogni giorno tra le contraddizioni e le degenerazioni innescate dai partiti, tutti o quasi appassionatamente uniti a formare l’attuale Governo, al confine tra Bosnia e Croazia o in balia del mar Mediterraneo, uomini, donne e bambini continuano a rischiare la vita per entrare in Europa.
Negli ultimi anni è notevolmente aumentato il flusso delle persone che percorrono la cosiddetta rotta balcanica; si tratta soprattutto di siriani, pakistani, afgani, bengalesi. Ma la violenza della polizia croata, che malmena e deruba i migranti dei soldi, privandoli, a volte, persino degli abiti e delle scarpe, rende particolarmente difficile attraversare il confine tra Bosnia e Croazia.
Confini esternalizzati
Come già fatto con la Turchia e con le milizie libiche, l’Unione Europea ha appaltato alla Bosnia il compito di trattenere i migranti nei cosiddetti campi di accoglienza temporanea, veri e propri lager, attorno ai quali si ammassano insediamenti spontanei, abitati da esseri umani sprovvisti di tutto, anche della loro dignità. Si tratta, com’è evidente, di una esternalizzazione dei confini, che ha sostanzialmente delegittimato il diritto di asilo riconosciuto nel 1951 dalla Convenzione di Ginevra. Sono in linea con questi provvedimenti le ingenti risorse destinate a Frontex (l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera), che ha visto crescere esponenzialmente negli anni i fondi ad essa destinati, dai 6 milioni di euro del 2005, ai 331 milioni del 2019, sino ai 1130 milioni del 2021.
Queste politiche hanno di fatto provocato migliaia di morti e dispersi, legittimando l’operato di governi che non rispettano i diritti umani e che hanno favorito il dilagare di un clima di guerra nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Da luglio 2019 a dicembre 2020 i naufragi hanno causato oltre 4.500 vittime – e la cifra è sicuramente sottostimata – provocate anche dal mancato intervento dei mezzi navali dei singoli stati nelle acque di loro competenza, dagli ostacoli frapposti alle attività di soccorso delle ONG e dalla mancata o ritardata assegnazione di un porto sicuro.
A settembre 2020 un incendio ha distrutto il più grande campo per migranti della Grecia, quello di Moria nell’isola di Lesbo, già bersaglio di scorribande e di attacchi da parte di gruppi fascisti e nazisti europei, tra cui i militanti di Alba Dorata.
Nel 2020 oltre 17.000 persone in fuga hanno scelto la rotta, una delle più letali, che dall’Africa giunge nelle isole Canarie: le vittime e i dispersi sono stati più di 600.
Lungo la costa mediterranea del Marocco, nelle due enclave spagnole di Ceuta e Melilla (circondate da alti muri costruiti fra il 1995 e il 2005), la diffusione del Covid-19 ha ulteriormente aggravato la situazione dei diritti umani. E ciò anche in seguito a una sentenza del Tribunale Costituzionale spagnolo secondo cui: “gli stranieri che vengono rilevati nella linea di confine della demarcazione territoriale di Ceuta o Melilla, mentre cercano di superare gli elementi di contenimento del confine per attraversarlo in modo irregolare, possono essere respinti al fine di impedire il loro ingresso illegale in Spagna”.
Decreti repressivi
L’Italia nel 2020 ha soccorso circa 34.000 migranti, a fronte degli 11.000 del 2019 e dei 23.000 del 2018, mentre dall’inizio del 2021 sono stati soccorsi oltre 6.000 migranti. Nonostante l’aumento degli arrivi, nel 2020 si sono ridotte di un terzo le richieste di asilo (28.000 contro le quasi 44.000 dell’anno precedente), così come si è dimezzato il numero dei permessi di soggiorno concessi.
La recente modifica dei decreti sicurezza (dicembre 2020), voluti nel 2018 da Salvini, non ha determinato una radicale soluzione di continuità rispetto alla gestione delle frontiere. Anche se non va sottaciuto come scrive S. Bontempelli, che si tratta di un testo legislativo “assai complesso, il cui segno è tutt’altro che univoco: e in cui norme fortemente innovative – di autentica rottura con il passato – convivono con disposizioni che mantengono in vigore, e in qualche caso addirittura peggiorano, l’impianto repressivo e restrittivo delle politiche migratorie”.
L’ex ministro degli interni leghista aveva previsto la possibilità di rinchiudere per trenta giorni i richiedenti asilo sbarcati in Italia con l’obiettivo di accertarne l’identità; mentre per coloro che chiedevano asilo alla frontiera era stata decisa una procedura accelerata, che rendeva più difficile far valere le ragioni e i diritti dei migranti. Infine, il decreto Salvini aveva individuato una lista di “Paesi sicuri”, dove, si affermava, non erano in corso persecuzioni ai danni della popolazione e, di conseguenza, per chi proveniva da tali Stati era sostanzialmente impossibile ottenere lo status di rifugiato. Questa impostazione è rimasta inalterata anche nel nuovo decreto Lamorgese.
Confermati gli ostacoli alle ONG
Così come non ci sono stati cambiamenti significativi sulla chiusura dei porti e sulla criminalizzazione delle ONG. È vero, le ammende a carico di queste ultime sono state drasticamente ridotte e dovranno essere stabilite da un giudice, ma è sempre possibile vietare l’ingresso in acque italiane a navi non militari, tranne nel caso in cui le operazioni di soccorso in mare siano avvenute nel rispetto della normativa internazionale vigente.
Una politica, quella della criminalizzazione delle ONG, che procede di pari passo con il ruolo sempre più significativo della sedicente Guardia costiera libica, le cui attività di intercettazione in acque internazionali (assistite da assetti aerei di Frontex e dall’operazione Nauras della Marina Militare Italiana, ancora di stanza Tripoli) sono finalizzate non certo a interventi di soccorso, ma a contrastare la cosiddetta immigrazione clandestina. Tant’è che i migranti in fuga intercettati dai libici sono soggetti, dopo essere stati nuovamente rinchiusi nei centri di detenzione, a ogni tipo di violenza.
Decisamente interessante, rispetto a questa situazione, quanto avvenuto nel Tribunale di Ragusa: il Giudice per le Udienze Preliminari) ha infatti deciso di prosciogliere dalle accuse di violenza privata e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina il comandante e la capo missione della nave Open Arms, sostenendo che i migranti salvati dovevano necessariamente essere condotti in un luogo sicuro (e la Libia non può essere considerata tale), ma tale decisione è stata contestata dal procuratore di Ragusa, Fabio D’Anna, secondo cui “se passerà il principio che si debbano salvare i migranti non solo da un possibile naufragio quanto dai libici, si rischia che chiunque possa organizzarsi per traghettare migranti in Italia non necessariamente per finalità esclusivamente umanitarie”. Superfluo dire che anche adesso, con il governo Draghi, si continua a delegare ai libici il compito di intercettare le imbarcazioni anche in acque internazionali.
L’aver bloccato nei porti italiani le navi delle ONG, per i provvedimenti di fermo amministrativo, ha reso sicuramente più difficili e pericolose le rotte del Mediterraneo centrale e ha contribuito a diffondere un clima da caccia alle streghe, nonostante, sino ad oggi, non si sia portato a termine un solo processo contro gli operatori delle ONG imputati di immigrazione clandestina.
Il caso Mare Jonio
Ma quella contro “i taxi del mare” (come li ha definiti il Ministro degli Esteri Di Maio) è una guerra che tuttora prosegue. Di recente infatti la Procura della Repubblica di Ragusa ha predisposto perquisizioni in abitazioni, sedi sociali e sulla nave Mare Jonio, ipotizzando, con una fantasia e una creatività degne di miglior causa, che le attività di soccorso della ONG Mediterranea Saving Humans siano preordinate allo scopo di lucro. Il riferimento è a un presunto accordo finanziario con l’armatore della nave petroliera Maersk Etienne per il trasbordo di 27 migranti rimasti per 37 giorni a bordo del natante (che non è sicuramente una nave da crociera), poiché Malta non aveva concesso l’approdo. Dopo due mesi, attraverso un bonifico bancario (una transazione facilmente rintracciabile), l’armatore della Maersk donava alla Idra Social Shipping, la società armatrice della Mare Jonio, 125.000 euro. Quello che la Procura non racconta è la scelta di alcuni armatori che, a partire dal 2020, si sono ribellati a una prassi precedentemente consolidata: i privati, su indicazione dei governi che non possono effettuare direttamente respingimenti in Libia per non violare le loro stesse leggi, si facevano carico di questo lavoro sporco.
Nel 2018, la nave Open Arms ha intercettato una conversazione radio tra il rimorchiatore italiano Asso Ventotto e la piattaforma ENI, in cui si parlava di un respingimento segreto illegale, e ha presentato un esposto presso la procura di Napoli. Quando, a sorpresa, è stato consegnato il diario di bordo della nave, è emersa la verità: ad ordinare il respingimento segreto del 2 luglio 2018 era stata la Marina Militare Italiana.
Nel 2020 alcuni degli armatori privati si sono ribellati ai governi che usano le loro navi per compiere reati. A partire da questa ricostruzione dei fatti è evidente che la donazione ricevuta dalla Mare Jonio assume tutt’altro significato rispetto a quello attribuito dalla procura ragusana.
Navi quarantena: costose carceri
Un capitolo a parte merita la questione delle cosiddette navi quarantena, utilizzate in Italia, dall’aprile del 2020, per il monitoraggio sanitario dei migranti arrivati via mare. A parte i costi proibitivi (quasi 5.000 euro al mese per ospite) che potrebbero e dovrebbero essere destinati ad attività sicuramente più utili, colpisce la scelta chiaramente discriminatoria: si tratta, infatti, di una restrizione della libertà di movimento applicata esclusivamente alle persone migranti, in un clima di assoluta mancanza di trasparenza e di informazioni e in un luogo, la nave, che non garantisce le condizioni minime per evitare il diffondersi della pandemia.
Che siano tempi drammaticamente complicati per chi non rinuncia a praticare politiche di solidarietà lo conferma, infine, quanto è avvenuto a Trieste nello scorso mese di febbraio. L’associazione di volontariato Linea d’Ombra, che fornisce aiuti ai migranti bloccati nel gelo dei campi e assistenza a quanti arrivano in città, ha subito la perquisizione della sede, con relativo sequestro di telefoni e libri contabili, e Gian Andrea Franchi (uno dei fondatori con Lorena Fornasir) è stato accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Senza retorica, non saranno certo questi ostacoli a far diminuire il nostro impegno.
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