1. L’IMPOSTAZIONE NEOLIBERISTA DELL’UNIONE MONETARIA EUROPEA

 La costruzione dell’UEM è stata caratterizzata dalle ricette di politica economica restrittiva delle scuole neoliberiste più oltranziste. Il Trattato di Maastricht del 1992 ha previsto il divieto per le Banche Centrali di fare anticipazioni in c/c al Tesoro e lo Statuto della BCE del 1997 il divieto assoluto per la BCE stessa e per le BCN (Banche Centrali Nazionali) di comprare titoli sul mercato primario. Quindi, la BCE e le BCN non possono stampare moneta e prestarla agli Stati o usarla per acquistarne i titoli alla prima emissione. Le regole base della costruzione dell’UEM impediscono qualsiasi finanziamento monetario di spesa in deficit. I Chicago boys e la scuola della Pubblic Choice hanno ispirato la politica di bilancio restrittiva: l’UEM ha previsto i vincoli sovranazionali del Trattato di Maastricht del 1992 e del Patto di Stabilità del 1997, deficit /PIL massimo al 3% e avvicinamento del debito/Pil al 60 %. Poi il Fiscal Compact del 2011 ha imposto l’obbligo di inserire il pareggio strutturale del bilancio in Costituzione o in legge ordinaria: il governo Monti ha scelto di riformare l’art. 81 della Costituzione, subordinando la garanzia dei diritti sociali a tale vincolo. Inoltre, in 20 anni il debito/PIL doveva essere ridotto al 60 %, con tagli alla spesa e/o incrementi fiscali di 1/20 all’anno, il che significava per l’Italia manovre recessive di almeno 40 mld di €, una cura che avrebbe ammazzato molti cavalli ben più in salute dell’economia italiana.

 

2. LA PRIMA SVOLTA NELLA POLITICA MONETARIA: IL BAZOOKA E IL QUANTITATIVE EASING DI DRAGHI

Nel pieno della crisi finanziaria del 2012, con pesanti attacchi speculativi nei confronti dei titoli greci, italiani, spagnoli…, Draghi dichiara: “nell’ambito del nostro mandato, la BCE farà tutto ciò che è necessario per preservare l’euro. E credetemi: sarà abbastanza” Il Wathever it takes di Draghi bastò per spegnere il fuoco della speculazione. Laddove i grandi speculatori vendevano, per esempio, titoli italiani per farne crollare il prezzo e farne salire i tassi d’interesse, la BCE, stampando moneta, avrebbe comprato a dismisura quei titoli per stabilizzarne prezzi e tassi…Vincendo ancora una volta l’opposizione dei custodi dell’ortodossia monetarista, in particolare il governatore della Bundesbank, dal marzo 2015 al dicembre del 2018 la BCE di Draghi compra titoli di Stato per 60 mld di euro al mese (diventati poi 80 e poi scesi gradualmente sino ad azzerarsi), con la più grande politica monetaria espansiva della storia dell’euro. L’obiettivo formale è far risalire il tasso d’inflazione di poco al di sotto del 2%, di fatto è quello di far ripartire la produzione e l’occupazione. Ma deve farlo all’interno dei limiti statutari, per cui compra i titoli sul mercato secondario principalmente dalle banche e non direttamente dagli Stati alla prima emissione. Al tempo stesso il tasso d’interesse di riferimento della BCE diventa pari a zero e addirittura i tassi d’interesse sulle anticipazioni alle banche diventano negativi, se si impegnano a usare i soldi per crediti alle imprese. L’enorme disponibilità di liquidità per le banche dovrebbe spingerle a concedere più crediti a bassi tassi a imprese e famiglie per far ripartire investimenti e consumi. Il problema è il credit crunch: le banche preferiscono in parte tenere moneta liquida (o investirla sui mercati finanziari) se temono che imprese e famiglie non riescano a restituire i prestiti; le stesse imprese non chiedono crediti se hanno cattive aspettative sulla domanda; le famiglie dei lavoratori non si indebitano se i salari sono bassi e il lavoro precarizzato.

Lo stesso Draghi ne è consapevole, laddove pone più volte il problema dei bassi salari, in particolare nel sud dell’UE, e di una svolta espansiva della politica di bilancio. In particolare, la Germania colloca la maggior parte delle proprie esportazioni nell’UE godendo dei vantaggi della moneta unica, che impedisce le svalutazioni competitive che hanno caratterizzato, per esempio, la storia della lira. Ma non ne rispetta le regole con un avanzo commerciale del 9%, laddove le norme prevedono un massimo del 6%. Ma, naturalmente, la Commissione UE non ha mai avviato la procedura sanzionatoria prevista. In ogni caso, Draghi termina il suo mandato impegnando la BCE a riprendere dal novembre 2019 gli acquisti di titoli per 20 mld al mese, vincolando ad una politica monetaria espansiva anche Christine Lagarde.

 

3. LA SVOLTA NELLA POLITICA ECONOMICA UE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

La politica monetaria

Dopo le prime incertezze e gaffe, anche Lagarde, di fronte all’intensità della crisi provocata dalla pandemia, ha ripreso la politica monetaria espansiva, prevedendo da marzo 2021 acquisti di titoli pubblici e privati con il programma PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme) per 1350 mld entro il giugno 2021; il 10 dicembre 2020 di fronte alla seconda ondata annuncia acquisti per altri 500mld, per cui la cifra complessiva diventa 1850 mld, e ne estende la durata temporale fino al marzo 2022; soprattutto ribadisce che adatterà gli acquisti “whatever is needed” – un eco del “whatever is takes”- , adattandoli in modo flessibile alle esigenze. Si tratta di una nuova eccezionale immissione di liquidità nel sistema, che si accompagna al tasso di riferimento, che rimane pari a zero, e ai tassi negativi su depositi e anticipazioni delle banche ordinarie: in pratica se le banche tengono moneta liquida presso la BCE devono pagare un interesse, invece di percepirlo; se usufruiscono di un’anticipazione devono restituire meno di quanto hanno percepito. Quindi, l’immissione di liquidità nel sistema è per la seconda volta straordinaria e per certi aspetti l’uso della politica monetaria a fini espansivi diventa strutturale.Per effetto di tale politica di acquisti la BCE e le BCN detengono ormai quote significative del debito pubblico degli Stati sia pregresso che da Covid. Quasi 500 mld del debito pubblico italiano sono nella pancia del Sistema europeo delle Banche Centrali (SEBC), corrispondente a quasi il 20% del totale. Il debito italiano post Covid detenuto dal SEBC ammonta a circa 200 mld a fine 2020. Già nel 2017 ci furono le prime timide proposte di cancellare questi debiti, per lo meno quelli detenuti dalle rispettive banche centrali nazionali. Ora si sono levate voci anche autorevoli, come quella del Presidente del Parlamento Europeo, per cancellare i debiti detenuti dal SEBC o almeno quelli post Covid. Si tratterebbe di fatto di un finanziamento monetario ex post della spesa pubblica in deficit, fin qui vietato dai Trattati. Si tratta non solo di una manovra prevista dai trattati di economia, ma che è stata ampiamente praticata con modalità diverse dalla Riserva Federale degli USA e da altre Banche Centrali per combattere la crisi del 2008 e quella odierna. Se i movimenti sociali si assumessero finalmente l’obiettivo di cercare di modificare i Trattati e rendere strutturale la svolta a 180 gradi della politica economica dell’UE quella della rinuncia della BCE e delle BCN alla riscossione di tali crediti sarebbe un obiettivo da assumere a pieno titolo. Non vi sarebbero le conseguenze tipiche della cancellazione del debito in termini di perdita di affidabilità degli Stati, perché nel caso in questione sarebbero formalmente dei creditori a rinunciare al credito e non i debitori sovrani a cancellarlo e, soprattutto, i privati non ci rimetterebbero.

La politica di bilancio

Anche più significativa è stata la svolta nella politica di bilancio dell’UE. Il 19 marzo 2020 con una decisione storica la Commissione UE ha attivato per la prima volta la clausola prevista dall’art. 107 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione), sospendendo il Patto di Stabilità, per cui gli Stati hanno potuto fare spesa in deficit derogando al limite del 3% del rapporto deficit/ PIL e allontanarsi dal 60% del rapporto debito/PIL. Secondo le ultime stime l’Italia è arrivata a circa il 10% del primo parametro e al 158% del secondo. Si discute sulla data di scadenza della sospensione (fine 2021 o fine 2022), ma soprattutto sulla riforma del Patto, che non può essere riproposto secondo i vincoli ispirati al neoliberismo. Ma proprio perché gli Stati non possono indebitarsi all’infinito, il Consiglio europeo straordinario del 17-21 luglio ha deliberato il Recovery Fund, un piano di aiuti straordinari agli Stati per 750 mld di euro, di cui 390 a fondo perduto e 360 mediante crediti trentennali a bassissimi tassi d’interesse. Tali fondi saranno reperiti, nell’ambito del bilancio UE 2021 -27, con l’emissione di Eurobond: si tratta di un’altra decisione storica che ha infranto un altro tabù, perché la Germania e altri Stati erano stati sempre contrari all’indebitamento comune; la mediazione è stata che questi fondi non possono essere usati per rimborsare debiti pregressi, ma per le sei aeree di ricostruzione individuate. La procedura aveva subito un rallentamento perché Ungheria e Polonia avevano minacciato il veto per la clausola relativa al rispetto dei principi dello Stato di diritto, ma la minaccia del Recovery a 25 e della loro esclusione dagli aiuti ha disinnescato la mina del veto. Lo Stato a cui sono destinati più fondi è l’Italia con 209 mld, di cui una 80ina a fondo perduto, ma proprio sull’ Italia si concentrano i timori per il ritardo nella presentazione del Piano e per la crisi del governo Conte. Inoltre, 100 mld del SURE (acronimo bizzarro di State sUpported shoRt-timE) sono destinati a crediti agevolati (28,4 per l’Italia) per finanziare gli ammortizzatori sociali, in particolare la cassa integrazione. Altri 100 mld circa di crediti agevolati per gli investimenti delle imprese sono erogati dalla BEI (Banca Europea degli investimenti).

Infine, 400 mld del Fondo Salva Stati sono stati messi a disposizione già da giugno 2020 per gli Stati che decidono di farne richiesta, ma senza l’imposizione di politiche restrittive previste dal Fiscal Compact e con l’unica condizione di destinare tali risorse alle spese sanitarie dirette e indirette. Si tratta di fondi già disponibili, versati in passato dagli Stati, e non usati anche per la cattiva fama del MES dovuta all’imposizione di politiche di austerità alla Grecia e agli altri paesi che vi hanno fatto ricorso. Per la prima volta tali fondi sono utilizzabili “senza condizionalità” e per affrontare un problema dell’economia reale e non solo una crisi finanziaria. ..

 

4. LA SVOLTA DELL’UE E I NOSTRI COMPITI

È chiaro che i vertici politici dell’UE e soprattutto i leader politici di Germania e Francia non sono stati colpiti sulla via di Damasco da un’improvvisa redenzione dal liberismo. Ma hanno avuto la lucidità politica di capire che insistere con il neoliberismo non conveniva ai loro interessi nazionali: parafrasando una felice battuta di Prodi sui tulipani olandesi, chi compra i prodotti tedeschi se non i cittadini di Italia, Spagna, Portogallo? E come possono farlo se i loro paesi non si riprendono dalla crisi economica più intensa da quella degli anni 30 del 900? Ma questa consapevolezza non ci deve frenare nel cogliere la straordinaria opportunità politica di una fuoriuscita “sociale” dalla crisi. Il conflitto politico centrale si gioca sulla destinazione dell’enorme massa di denaro proveniente dall’ UE. E i movimenti sociali dovrebbero assumersi l’onere di provare a influenzare queste scelte e. al tempo stesso, lottare per rendere irreversibile e strutturale la svolta dell’UE, invece di indulgere nelle incrostazioni ideologiche del sovranismo di sinistra. L’impianto neoliberista dell’UEM ha spinto una parte dei movimenti sociali antagonisti a richiedere l’uscita dall’euro; altri non l’hanno mai condivisa perché storicamente le politiche neoliberiste sono più facili da perseguire quando si riduce il livello politico e dimensionale del soggetto della politica economica: il New Deal in USA coincise con un rafforzamento dei poteri dell’ Unione Federale rispetto a quello degli Stati; gli ultimi decenni di neoliberismo si sono accompagnati in Europa con il rafforzamento dei poteri delle Regioni e della varie autonomie locali. Ma ancor di più oggi il sovranismo di sinistra non ha ragione d’essere di fronte alla svolta dell’UE, rivelando solo una lentezza di riflessi nel cogliere le novità ed evidenziando la totale assenza di intervento e mobilitazione su questo piano politico.

Proviamo a delineare rapidamente quali potrebbero essere i punti essenziali di una fuoriuscita sociale dalla crisi. L’esigenza di disporre subito di reddito per fronteggiare le chiusure ha rafforzato la richiesta dell’estensione del reddito di cittadinanza verso un reddito universale, che renda più forte anche individualmente i lavoratori sul mercato del lavoro, mettendoli in grado di rifiutare lavori indecenti. Un reddito universale costringerebbe le imprese italiane a non puntare più al contenimento dei salari, ma ad un aumento della produttività e della qualità dei prodotti. Reddito universale e lavoro di qualità in termini di diritti e garanzie per i lavoratori sono strutturalmente legati. Anche un salario minimo europeo, predeterminato per legge, spingerebbe verso l’alto la dinamica salariale e lascerebbe comunque alla contrattazione collettiva un ruolo centrale nella redistribuzione del reddito. La disoccupazione tecnologica, dovuta all’informatizzazione e robotizzazione della produzione, può essere arginata con la riduzione del tempo di lavoro a parità di salario, magari coprendo temporaneamente l’aumento dei costi per le imprese con trasferimenti statali con vincoli di destinazione. Reddito universale, lavoro di qualità in termini di diritti e riduzione del tempo di lavoro determinerebbero un rialzo della domanda aggregata e una ripresa produttiva e dell’occupazione.

Il tasso di partecipazione al lavoro e il tasso di occupazione dell’Italia sono i più bassi dell’Ue dopo la Grecia, con un gap particolarmente sensibile per l’occupazione giovanile e femminile, con un’alta percentuale di giovani che non studiano né lavorano. L’occupazione femminile, la più danneggiata dal lockdown, deve essere, invece, un investimento strategico per la crescita del paese, supportata con incentivi per l’assunzione di donne, da periodi di maternità prolungati e congedi parentali finanziati dalla spesa pubblica, da un assegno unico universale per ogni figlio a carico, da più efficaci servizi sociali e un migliore bilanciamento dei tempi di lavoro e di vita. L’occupazione giovanile va garantita con il lavoro di qualità in termini di diritti e la riduzione della precarizzazione, la riduzione del tempo di lavoro e l’abbassamento dell’età pensionabile (con la fine di quota 100 avremo l’età pensionabile tra le più alte d’Europa)

La decisione UE di puntare al taglio del 55% di emissioni di CO2 entro il 2020 e all’azzeramento entro il 2050 e, in genere, il taglio green di un terzo dei fondi potrebbe essere il volano per imporre una carbon tax europea e, in generale, un’inversione di tendenza in merito ai disastri ecologici e al cambiamento climatico provocati dal capitalismo, usando poteri di diritto pubblico.

È sotto gli occhi di tutti l’urgenza di intervenire nel trasporto pubblico, non solo potenziandolo ma invertendo la tendenza verso l’aziendalizzazione e la privatizzazione che hanno caratterizzato gli ultimi decenni. I fondi del Recovery per la scuola, se usati per una digitalizzazione che provochi la subordinazione del docente alla macchina informatica o per asservirla agli interessi imprenditoriali con la scuola delle competenze addestrative, ne provocherebbero un ulteriore dequalificazione. Va rilanciato, invece, il modello di scuola pubblica previsto dalla Costituzione, basato su libertà di insegnamento, pluralismo didattico culturale e democrazia collegiale, puntando ad un’istituzione che rimetta al centro i saperi e lo sviluppo delle capacità cognitive per la formazione di un cittadino sostanzialmente libero e consapevole. Quindi, investimenti massicci per la fatiscente edilizia scolastica, riduzione del numero degli alunni per classe, aumento degli organici e azzeramento del più alto tasso di precarietà del lavoro in Europa, aumenti salariali per ridurre il gap con i salari europei. I 19,7 mld previsti dall’ultima versione del Recovery Plan per la sanità sono ancora insufficienti: tali fondi vanno non solo aumentati, ma destinati anch’essi ad invertire la tendenza verso l’aziendalizzazione della sanità pubblica e la sua privatizzazione, che sono stati tra le cause principali dell’altissima mortalità in Italia rispetto al numero degli abitanti. Quindi, assunzione di medici e infermieri a tempo indeterminato, potenziamento delle strutture sanitarie pubbliche, radicamento sul territorio delle strutture sanitarie, presìdi medici scolastici soprattutto con una logica di prevenzione. Inoltre, è assurdo che l’UE abbia finanziato la ricerca sui vaccini senza che vengano messi effettivamente a disposizione di tutti: l’esclusiva ventennale dei brevetti di fatto impedisce l’accesso ai paesi più poveri, per cui come Confederazione Cobas abbiamo aderito alla campagna di raccolta firme per un’ ICE (Iniziativa Cittadini Europei) per una moratoria dei brevetti durante la pandemia.

Gestione dei servizi pubblici da “beni comuni” (scuola, sanità trasporti, telecomunicazioni), riconversione della produzione e della distribuzione per fermare il disastro ecologico e climatico, reddito universale, lavoro di qualità in termini di diritti e riduzione del tempo di lavoro a parità di salario potrebbero essere i primi punti salienti di un programma per un uso sociale dell’enorme massa di denaro proveniente dall’Unione Europea. Naturalmente anche l’Unione Europea va profondamente riformata sia nelle istituzioni che nella politica economica. Ci limitiamo solo ad un elenco di temi su cui lanciare il dibattito: superamento del deficit di democrazia con una piena centralità del Parlamento nella produzione legislativa, che andrebbe di pari passo con l’eliminazione del diritto di veto; revisione dei Trattati con l’eliminazione del tabù del finanziamento monetario della spesa pubblica in deficit, permettendo alla BCE di fare anticipazioni in conto corrente agli Stati e alla stessa UE e di acquistare titoli sul mercato primario; cancellazione dei titoli del debito pubblico in mano alla BCE e alle BCN, a partire da quelli Covid; Eurobond permanenti, nella convinzione che l’indebitamento comune rafforzi il legame politico tra gli Stati e costituisca una rete di protezione di fatto anche per i debiti statali pregressi; allungamento della sospensione del Patto di Stabilità e sua completa revisione; introduzione del principio per cui le multinazionali vengono tassate laddove producono beni e servizi e non dove hanno la sede legale, e cancellazione del tax ruling, che permette alle multinazionali di concordare con i singoli Stati il trattamento fiscale.

 

La versione integrale di questo testo è disponibile all’url http://www.cobas-scuola.it/Notizie/LE-SVOLTE-DELL-UNIONE-EUROPEA-UNA-PROPOSTA-POLITICA