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Il discorso politico razzista della Destra non può essere sicuramente contrastato e ricacciato indietro con la buona coscienza e l’approccio moralistico caratteristico di parte dell’antirazzismo, è necessario mettere al centro la razzializzazione come dispositivo centrale della gerarchizzazione del capitale.
In altre parole – riprendendo il titolo della raccolta curata da Tommaso Palmi per DeriveApprodi, in cui tu hai scritto Per una critica dell’antirazzismo europeo – la questione è: come decolonizzare l’antirazzismo ?
L’antirazzismo si decolonizzerà a partire dalla presa di parola autonoma e diretta dei soggetti di quella parte di popolazione che è razzializzata in Italia, e non solo da parte dei migranti ma mi riferisco di più alle seconde generazioni che, soprattutto questa estate dopo quello che è successo negli USA con Black lives matter (BLM), si sono visti per la prima volta, o meglio, sono state più visibili nelle strade e nelle reti. Gli effetti di questa prima presa di parola da parte di questi soggetti sono ancora in corso. Negli spazi politici, accademici e intellettuali è sempre più frequente vedere soggetti e movimenti, in particolare attiviste femministe, non-bianchi, che prima vedevamo molto meno. E questo di per sé è una novità importante per una società come quella italiana, dove il monopolio di queste voci era detenuto da sempre più o meno dagli stessi movimenti e soggetti.
Negli ultimi mesi, infatti, sono nati anche in Italia diversi gruppi e collettivi neri con il nome Black lives matter o che comunque si richiamano al movimento e pongono l’antirazzismo al centro delle loro lotte e posizionamenti. Altre cose importanti sono successe a Milano, Torino, Firenze nelle prime manifestazioni di protesta contro alcune misure del governo per contenere il Covid, quando si sono viste in piazza parti di quelle seconde generazioni che non si erano mai viste in quel modo, e sono state presenti in un modo molto particolare, autonomo, senza essere inquadrati nelle organizzazioni di gruppi, movimenti e sindacati. Per la prima volta stiamo assistendo a qualcosa che può portare a un rovesciamento dell’ordine del discorso antirazzista, mettendo in luce tutti i limiti che ha avuto sin ora in Italia.
Un discorso antirazzista egemonizzato da una visione di sinistra molto tradizionale, che vede sempre il razzismo o come una bugia o come una mistificazione ideologica o come un semplice strumento di governo della forza lavoro o come mera discriminazione, pregiudizio o ignoranza. Si tratta di una visione che vede le ragioni del razzismo sempre fuori dal razzismo stesso, negandoli cosi il suo ruolo strutturale. Questo modo di concepire il razzismo sottovaluta la sua dimensione di dispositivo materiale e strutturale, non riesce a vedere le sue ramificazioni in tutte le sfere e spazi della società, compresi quelli militanti, come una sorta di fatto sociale totale.
Sottovaluta anche la sua dimensione culturale, il suo essere dentro e non fuori la cultura, ovvero dentro il senso comune sociale, ma anche dentro i saperi trasmessi dalle istituzioni, scolastiche e universitarie. Si tratta di una visione sempre pronta a vedere il razzismo in bocca ai politici xenofobi di turno, ai movimenti razzisti e neofascisti o a trasmettere l’idea che il razzismo sia soltanto una questione di permessi di soggiorni o di richieste di asilo negati o di mancata accoglienza. È chiaro che il razzismo è anche tutto ciò, ma questo modo di vedere il problema rischia di essere non solo fuorviante, ma anche autoreferenziale. Rischia di fare dell’antirazzismo più una questione morale che non di pratica materiale e militante.
Oggi siamo forse a un punto di rottura di questa visione, che può portare a quello che in qualche modo ha mostrato BLM in USA, e cioè che l’antirazzismo può funzionare come un elemento di ricomposizione politica di classe ampio e trasversale e non semplicemente come un mero aggregato. Bisognerà vedere cosa provocherà questa nuova congiuntura, cosa rivelerà di nuovo questo nuovo antirazzismo, sia rispetto a razzismo e antirazzismo ovviamente, ma anche rispetto a una rilettura della storia nazionale e del nazionalismo metodologico che regola le logiche e i confini di ogni forma di conoscenza istituzionale.
La decolonizzazione dell’antirazzismo, come chiedevi, non può non venire dalle stesse forme di lotta a cui darà luogo questo nuovo antirazzismo. Oltre a quello, a me pare oramai indispensabile, e qualcosa si è già cominciato a fare, andare a vedere il ricchissimo archivio del pensiero radicale africano-americano e soprattutto del femminismo nero: non solo Césaire, Fanon, C. L. R. James e Angela Davis, piuttosto frequentati anche da noi, ma W. E. B. Du Bois, L. Hughes, C. Mckay, Richard Wright, Ida B. Wells, Sojourner Truth, Claudia Jones, Huey P. Newton, lo stesso C. Robinson ecc. Qualcosa di importante ancora da fare, poi, viene annunciato da Robinson nel suo Black Marxism: andare a vedere cosa ha attratto i rivoluzionari neri verso il marxismo, cosa hanno conservato del marxismo, quali sono i limiti che hanno trovato e perché, infine, in buona parte, sia le figure e sia i movimenti radicali più importanti prodotti dalla tradizione nera hanno cercato comunque altre vie per lo sviluppo di un loro antirazzismo radicale e rivoluzionario.
Partendo dalla lettura necropolitica del capitale che fa Achille Mbembe, in questo stato di emergenza sanitaria, che è diventato la regola, sembra ormai necessaria l’intersezione delle lotte antirazziste, la critica all’estrattivismo e alle grandi opere e le questioni di genere. Quali possibilità di unire queste pratiche di sovvertimento del presente?
La pandemia ha mostrato questo lato necropolitico del capitalismo o della razionalità di governo neoliberale degli ultimi venti anni; e lato necropolitico significa che una parte della società viene messa al lavoro in senso biopolitico, anche di sfruttamento, in un modo “inclusivo”, ma che c’è un’altra parte che viene messa al lavoro, o sfruttata, in modo diverso, e non proprio inclusivo, che viene esposta e gestita attraverso quello che Ruth Gilmore ha chiamato una grado di morte prematura molto maggiore rispetto a quell’altra. Lato necropolitico significa qui una doppia economia statale della cura e della gestione, un “abbandono organizzato”, per così dire, da parte dello stato di diversi segmenti della propria popolazione, un’esclusione pianificata che equivale a una morte sociale, ma anche fisica.
Il Covid in qualche modo ha messo in luce questo aspetto duplice del dispositivo neoliberale di governo: c’è una parte di popolazione che pur nell’eccezione va protetta, va garantita e sostenuta, c’è un’altra parte che invece può essere lasciata a un rischio di esposizione più alto, perché la vita di queste persone vale molto meno di quella dell’altra sfera. Sono meno “essenziali”, si potrebbe dire, usando un termine un po’ equivoco oggi molto in voga, in virtù di certe concezioni storiche, razziali e coloniali, dell’umano. Penso a tutti quei lavori che vengono svolti dalla forza lavoro migrante, ma ovviamente non solo dai migranti, nella distribuzione, nella logistica, in agricoltura e anche in altre forme di lavoro informale o a quello che sta succedendo nei centri di accoglienza. Queste tipologie di lavoro possono essersi rivelate essenziali nella pandemia, ma i governi e il capitale non potranno mai considerarli tali, proprio perché possono contare su una grande massa di persone pronte a sostituirli. Detto molto banalmente, per il capitale di essenziale c’è solo il profitto, la proprietà privata (anche nella sua forma intellettuale) e le banche.
E nelle carceri…
Si, anche il carcere rientra in quanto dicevo prima. Per questa parte della popolazione, o c’è stata una scarsa “cura”, nonché un’assenza quasi totale dal dibattito pubblico, oppure quello che si può dire traendo dalla tradizione antirazzista africano-americana, una sorta di abbandono organizzato, una volontà esplicita di abbandonare quelle vite che valgono meno, come affermava David Harvey. Si tratta di una parte della popolazione resa disponibile o sfruttabile. Oggi a queste forme predatorie di sfruttamento dell’umano da parte del capitale viene dato anche il nome di capitalismo estrattivo. Una logica di accumulazione che riguarda più che altro popolazioni eccedenti, che stanno dentro una logica di gestione e di esercizio del potere che non è quella delle altre sfere della società.
All’inizio della pandemia scoppio una durissima rivolta in diverse carceri, in cui vennero uccisi 13 detenuti, quasi tutti stranieri, di cui non abbiamo saputo più nulla. Anche questo è sintomatico di quanto stiamo dicendo. Quello che va evidenziato, come ho cercato di fare in Governare la crisi dei rifugiati [Derive Approdi 2019], non è soltanto che questo duplice dispositivo del capitalismo neoliberale tende semplicemente a includere o a escludere, ma soprattutto il fatto che lo sfruttamento totale e le variee forme di esclusione di diversi segmenti della popolazione vengono poste come condizione del benessere dell’altra. In questo senso, la necropolitica è una tecnologia di governo e di esercizio del potere che trae origine proprio dall’intreccio storico tra capitalismo e razzismo come razionalità coloniale di governo. Biopolitica e necropolitica, dunque, sono due sfere di vita sociale interconnesse, non separate, in cui la morte dell’una viene posto come condizione della vita, del valore, del benessere e della produttività dell’altra.
Si tratta di un meccanismo ben messo in evidenza dall’analisi del razzismo di Foucault in Bisogna difendere la società: il razzismo – affermava Foucault – non consiste solo nell’isolare, uccidere o escludere il diverso, ma la sua ragion d’essere ha alla base qualcosa di più perverso ancora, ben esemplificato dall’enunciazione mors tua vita mea, che non vuol dire altro che la qualità, la sicurezza e la potenza biopolitica di una parte della società dipende dalla morte, repressione, controllo, esclusione, disciplinamento, incarcerazione, dell’altra.
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