photo credits: Majkl Velner
In oltre venti anni di attività il CESP ha realizzato iniziative di ricerca e formazione nelle quali si sono affrontate le molteplici problematiche che attraversano la scuola, sia per quanto riguarda gli interventi normativi che ne hanno cambiato il volto in questi ultimi venti anni, sia in relazione alle trasformazioni sociali che la stanno silenziosamente, ma inesorabilmente, travolgendo, questioni che spesso, peraltro, si intrecciano e sovrappongono tra loro.
In questo ambito, come già più volte sottolineato anche sulle pagine di questo giornale, si collocano i Laboratori scuola-società che fanno del CESP un centro studi vero e proprio il quale non ha come obiettivo quello di una convegnistica fine a se stessa, ma utilizza, invece, i laboratori come seminari di studio, diffusi su un ampio campione di territori a livello nazionale, dai quali ricevere un quadro abbastanza esauriente di ciò che è la scuola oggi e di quali sono (o sarebbero) i suoi bisogni, in rapporto al più ampio quadro della società italiana e relativo corollario di decadenza e trasformazione in peggio che le appartengono, ma anche con alcuni punti dai quali poter ripartire per governare, rivoluzionandola, la scuola.
A tal proposito descriverò l’esempio di due interventi per tutti: la scuola in carcere e la medicalizzazione degli studenti non “conformi”.
La scuola in carcere
L’esperienza maturata attraverso la rete delle scuole ristrette nell’arcipelago carcerario, ci restituisce, infatti, l’immagine di un degrado – che trova nella discarica sociale più grande d’Italia – tutti i nodi intorno ai quali si avvolge, senza dipanarli, il dibattito politico-sociale: mancanza di occupazione, degrado economico-sociale, abbandono delle (e distacco dalle) periferie cittadine, incultura generalizzata, negazionismo, razzismo, sessismo. In Italia il numero dei detenuti supera del 120% i posti disponibili e nelle carceri sono presenti sempre più i giovanissimi (al di là degli istituti penali minorili), con reati spesso connessi all’uso e spaccio di droghe e, rispetto all’esperienza scolastica, con sempre maggiori problemi di attenzione, difficoltà ad esprimersi, sia nello scritto che nel parlato, bassissimo livello di istruzione.
Ciò corrisponde al quadro generale offerto dai dati statistici che evidenziano un grave deficit formativo della nostra popolazione adulta: secondo gli ultimi dati (ASI 2018, pag. 251, ISTAT) il 50% della popolazione adulta (15 anni e oltre) è sprovvista del titolo di studio conclusivo dell’istruzione secondaria di secondo grado; in particolare, quasi 13 milioni sono gli adulti residenti nel nostro Paese, tra i 25 ed i 64 anni, che non hanno un titolo di studio superiore alla licenza media, cioè a dire il 39,5% di media contro il 22,5% Europeo (dati NOI ITALIA 2019).
La medicalizzazione degli studenti non “conformi”
Il ciclo di seminari sulla patologizzazione dell’istruzione e sulla presenza sempre più forte di bambini e ragazzi con “disturbi” sui quali intervenire (BES, DSA, ADHD), ha evidenziato, al contempo, una tendenza sempre più diffusa a definire i comportamenti utilizzando termini diagnostici riferibili a malattie, con il conseguente ricorso ai farmaci e l’urgente necessità di contrastare tale dispositivo. Ciò ha innescato una generalizzata e attenta riflessione sull’esigenza di definire una nuova impostazione didattica e pedagogica, al di là della richiesta di quei genitori che cercano una soluzione al disagio dei propri figli chiedendone per primi la medicalizzazione, purché superino lo scoglio scolastico, ma anche al di là delle pratiche inerziali con le quali spesso i docenti rispondono alla problematica assumendo un atteggiamento solo difensivo rispetto alle improponibili soluzioni ministeriali.
Lo scenario che ne emerge è un coacervo apparentemente inestricabile di tendenze anche contrapposte, per le quali la risposta migliore è cercare, con tutti/e coloro che sono disponibili, nuove prospettive per risolvere la dimensione patologizzante e non far convivere per tutta la durata della loro adolescenza i giovani con un presunto disturbo della personalità. In ogni caso è necessario assumere un punto di vista diverso con il quale guardare ai fenomeni che ci circondano. L’aumento percentualmente rilevante di ragazzi e ragazze “disturbati/e” impone di mettere in campo, oltre a strategie compensative o dispensative, progetti in grado di far superare le difficoltà evidenziate.
È come se i giovani, infatti, comprensibilmente con la loro fascia d’età, ma in modo ribaltato rispetto a quello delle generazioni precedenti, rifiutassero di adattarsi ad una pressione con la quale si cerca di farli aderire ad un mondo che non li rappresenta più. Una pressione che sfugge anche a noi stessi, che la mettiamo in campo, a discapito della comprensione profonda delle dinamiche in atto. L’eccessiva stimolazione cui sono sottoposti i nostri nativi digitali con l’uso incontrollato dei social sin da piccolissimi, è emerso come grosso problema, più ampio di quanto si creda comunemente, contro il quale è necessario creare uno spazio di protezione in cui si avverta il reciproco interesse a considerare l’educazione come un argomento che riguarda non solo la scuola, ma il sociale, i rapporti, le relazioni, impegnandosi seriamente e lottando per una pedagogia che rispetti tale assunto. Allo stesso tempo bisogna acquisire e far acquisire la consapevolezza che non si può pensare di far rientrare tutti in uno schema di sviluppo ben definito, ma che non rappresenta la certezza del giusto.
L’intervento sociale dei Cobas
Proprio attraverso tale impostazione si definisce il quarto ambito di intervento dei Cobas, quello sociale, da sempre enunciato, accanto al sindacale, al politico, al culturale, ma mai fino in fondo agito, che è anche quello che si lega più strettamente con la sfera “politica” di intervento e qualifica, appunto, l’attività del CESP, non semplicemente come intervento disimpegnato e salottiero, ma come presenza e azione concreta, dunque “politica” nelle scuole e nei territori.
L’obiettivo è comprendere come ciò possa essere realizzato a partire da una riflessione comune del gruppo che lavora a tale programma, perché un Centro Studi punta all’approfondimento di grandi questioni di fondo, con propositi – da un lato − di stimolo e pungolo della riflessione sui presupposti stessi dell’attività dell’associazione e – dall’altro − di iniziativa e proposta diretta.
In questo senso la condizione dei detenuti deve diventare campo per un intervento a tutto tondo sull’importanza dell’istruzione, della formazione e delle scuole quali presìdi all’interno di tutti i territori e in particolare di quelli problematici, puntando sui docenti quale punto di raccordo tra scuola e società, per cercare di rendere la prima un ambiente adatto alla crescita consapevole di bambini e adolescenti rispetto al mondo e a loro stessi dove si possa sperimentare il loro sviluppo attraverso una vita che sia ricca di senso e la seconda luogo di consapevole compartecipazione all’azione educativa e di crescita.
Le nostre scuole sono luoghi in cui l’intervento di un medico e la somministrazione di psicofarmaci non vengono ancora ritenuti necessari, per questo occorre impegnarsi per tutti coloro che rischiano una patologia anticipata o precoce perché non corrispondono alla media comportamentale (senza escludere le problematiche più difficili e rilevanti), intervenendo con consapevolezza sulle famiglie (che vanno supportate e alle quali occorre spiegare il senso perduto della scuola) e sui singoli studenti che non vanno patologizzati, mettendo un campo un intervento tramite il quale supportare sui territori singoli e gruppi in difficoltà. Declinando così, finalmente, l’intervento di un sindacato sociale.
Gli altri ambiti d’intervento
Naturalmente quelli utilizzati in questo articolo come esempio d’intervento nel sociale, costituiscono solo due dei vari e importanti temi trattati nei Laboratori scuola-società: la questione ambientale, che investe con la propria riflessione classi e territori, rendendo la scuola presidio culturale delle comunità; l’immigrazione, con una approfondita ricerca sulla didattica dell’integrazione e sulla Costituzione; l’omofobia nelle scuole e nella società con l’analisi dei comportamenti che continuano a produrre le forme di discriminazione nella scuola e fuori da questa, che ha portato il CESP alla pubblicazione di un testo Quale genere di scuola? come risultato di un intero ciclo di formazione su tale tematica. In ultimo, ma non per importanza, si pone la questione di genere e, in particolare, la violenza sulle donne, problematica che sta facendo maturare nel CESP, grazie al contributo delle donne presenti nell’associazione, l’acquisizione del punto di vista delle donne quale sguardo trasversale con il quale attraversare tutte le problematiche affrontate nei Laboratori scuola-società.
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