photo credits: Marion Doss
La storia dell’ultimo trentennio è la storia della vittoria (si spera temporanea) della logica e della legge del capitale. L’ideologia del mercato, con i suoi correlati di privatizzazioni e estinzione del pubblico, individualismo e competizione, disuguaglianza e incattivimento sociale, ha preso possesso, in modo pervasivo e totalizzante, del discorso pubblico. Per comprendere le dinamiche economiche, politiche e sociali che hanno permesso un tale sfondamento, Mauro Boarelli (Contro l’ideologia del merito, Laterza, 2019) suggerisce una chiave di lettura centrata sullo strumento dell’ideologia del merito e sul grimaldello della meritocrazia. Si tratta, come è ovvio, di un’analisi che non pretende di ridurre la complessità di fenomeni storici di natura epocale a un’unica causa. Purtuttavia l’operazione, per così dire ermeneutica, sulla realtà, operata da Boarelli, è stimolante, interessante e, soprattutto, di grande utilità.
Il virus del merito
Si tratta di una categoria concettuale, quella del merito, che si è insediata inizialmente nei Paesi anglosassoni e, poi, soprattutto in Europa, e che, per esempio attraverso i sistemi di valutazione, ha pesantemente stravolto gli assetti organizzativi, le procedure di funzionamento e la mission finale di settori quali la scuola, l’università, i servizi pubblici e il lavoro privato. Ne consegue, neanche a dirlo, che una grande quantità di cittadini, sia come lavoratori sia come utenti, sono stati presi nella rete di un tale dispositivo.
Parimenti l’Italia, e il suo sistema dell’istruzione in primis, sono stati travolti da una tale offensiva, anche in considerazione del fatto che il settore pubblico italiano non è stato certo esente, nel recente passato, da casi di scandalosa corruttela, da episodi di eclatante immoralità e da fenomeni di palese inefficienza. In un contesto di tale natura l’ideologia del merito ha trovato terreno fertile per il proprio sviluppo visto che è stata intesa come possibile strumento di riscatto.
Tuttavia, il vocabolario attorno al quale ruota l’ideologia del merito non è neutro e, non a caso, rimanda ad una sfera, quella dell’economia, che non è priva di malcelate ambiguità e di intenzionali fraintendimenti. Una sfera che, tendenzialmente, ha preteso di esorbitare dal suo specifico ambito disciplinare per investire in maniera totalizzante l’intera società. Nel tempo presente, quest’ultima ha finito per essere considerata come un aggregato composto da individui dotati di capitale umano e portati ad agire facendo leva soltanto su una presunta razionalità orientata in modo unilaterale esclusivamente al conseguimento di un guadagno economico. Si applichi poi una tale pseudoteoria all’ambito dell’istruzione e la frittata è fatta.
Il merito nelle scuole
Purtroppo è quello che è successo al mondo della scuola negli ultimi decenni: chi non ha sentito dire, ripetere ossessivamente come un mantra, oserei dire, che la scuola deve orientare le scelte degli studenti e delle studentesse sulla base di un criterio fondato sul guadagno futuro o sull’esigenza di una maggiore interconnessione tra mondo del lavoro e istruzione? E come non ricordare che il vocabolario della scuola è stato sopraffatto dalla viziosa congerie di termini quali profitto, credito, debito, capitale umano e così via? Il fatto è che, a detta di chi propina una tale ricetta, tutto deve essere filtrato dal punto di vista del mercato e dell’impresa. Si veda ancora la genericità con la quale si è cercato di definire il termine competenza. Chi scrive è stato, suo malgrado, testimone di infinite discussioni, in sede di dipartimenti scolastici o nei più svariati organi collegiali, nei quali, pervicacemente, ci si ostinava a cercare di definire il significato e gli ambiti di applicazione di termini quali competenze, abilità, conoscenze e capacità. Con l’unico e sconfortante risultato di avvitarsi in discussioni sterili e inutili che sancivano banalmente la resa totale di ogni istanza educativa e formativa alle logiche dell’impresa e la subalternità mortificante alle esigenze della pseudocultura aziendale.
Ma come ricorda correttamente l’autore, rifacendosi a John Dewey, l’apprendimento non è un prodotto frutto di ricezione passiva, nozionistica e acritica, quale finisce per essere quello veicolato dall’orizzonte meritocratico, individualistico e competitivo della valutazione banale dei test, come quelli somministrati dall’Invalsi, che omologano e decontestualizzano. Al contrario, esso si configura come un processo attivo e dinamico articolato in una dimensione individuale e in una dimensione sociale. Insomma, se il sapere dotato di senso necessita di un’operazione di distanziamento critico con la quale ci si attrezza per modificare il reale, l’apprendimento per competenze si basa sull’idea che è sufficiente adeguarsi a una presunta razionalità (economica) della realtà, magari per massimizzare il proprio utile egoistico e personale. Il che vuol dire, da questo punto di vista, che l’educazione deve promuovere la partecipazione consapevole all’ambiente di cui si fa parte. “Anche la dimensione individuale va intesa in senso duplice: da un lato, la «formazione di individui, di esseri cioè capaci di direzione autonoma e di iniziativa spontanea, è la condizione per la realizzazione di una convivenza associata, di una vera società»; dall’altro, «tale società […] non sarà pienamente realizzata se non riuscirà a fare di ogni membro un individuo, a universalizzare la distinzione». L’antitesi tra «sociale» e «individuale» è quindi falsa: il livello personale e quello comunitario si rafforzano a vicenda, sono legati da un rapporto di circolarità. È da questa relazione feconda che nasce una società democratica, ed è per questo, scrive Dewey, che l’antitesi tra le due dimensioni non è solo sciocca, ma è anche pericolosa”(pp. 33-34).
Dispositivi apparentemente neutrali
Ma non è tutto, la standardizzazione degli strumenti di valutazione riconduce l’analisi dell’autore alla rete dei dispositivi di potere che pervadono la società e, al suo interno, la scuola. Le istituzioni scolastiche sono campi di forze nei quali si esercitano poteri che promuovono la messa in forma di soggetti, teste più o meno ben fatte, per parafrasare il titolo di un celebre libretto sull’educazione di Edgar Morin. Come insegna Foucault, i dispositivi di potere non funzionano soltanto secondo un meccanismo repressivo e impositivo ma inducono all’obbedienza attraverso logiche di funzionamento “positive” che pretendono di coinvolgere attivamente gli individui nella loro riproduzione. È in questo modo che si manipolano le coscienze, le si uniformano agli imperativi dell’utile economico e della pretesa univocità della dimensione del mercato. E l’approccio per competenze non fa che confermare il fatto che l’efficacia del potere deve essere ricercata là dove operano dispositivi che all’apparenza si mostrano come tecniche neutrali. “Le pratiche messe in campo dall’ideologia del merito stanno proprio in questa zona in cui non si manifesta necessariamente un confronto diretto ed esplicito tra l’autorità e gli individui. Ma quel rapporto, in realtà, è sempre all’opera”(p. 106). Non a caso con i dispositivi di potere hanno a che fare i caratteri dominanti di quel guardiano notturno che è la tecnocrazia burocratica, tra questi il mito illusorio dell’efficienza e della razionalità laddove questi vengano intesi quali portatori della pretesa di ridurre tutto a procedure uniformi o a formule statistiche prestabilite che hanno poco a che vedere, in sostanza, con la vita reale (pp. 86-87).
Coniugare cultura dell’individuo e percezione dei problemi sociali
Il libro di Boarelli, infine, contiene una significativa quantità di riflessioni sulla natura della scuola pubblica e sulla imprescindibile necessità di coniugare cultura dell’individuo (che non è individualismo) e percezione dei problemi sociali. Compito della scuola, allora, sembra suggerire l’autore, dovrebbe essere quello di, se non riparare, quantomeno riflettere su uno dei più drammatici aspetti della mutazione attuale, quello che, attraverso uno slittamento nella percezione dei problemi sociali, li ha trasformati in problemi individuali, la cui presa in carico spetterebbe esclusivamente ai terapeuti. L’ideologia del merito, che declinata in questa dimensione si trasfonde in un acritico e statico culto di una soggettività passiva, di un sé conservativo e narcisistico, non ha alcun interesse a cogliere la connessione esistente tra problemi individuali e problemi sociali. Ecco perché “l’ideologia del merito è ostile al conflitto. Il conflitto sociale si nutre dell’azione collettiva, il merito dell’iniziativa individuale. Il primo persegue scopi comuni che investono la società nel suo complesso, il secondo concepisce il progresso sociale come ricaduta naturale di una somma di successi personali. L’uno prefigura un diverso ordine sociale, l’altro conferma quello esistente” (pp. 101-102).
L’imbroglio meritocratico
Occorre dunque svelare l’arcano e affermare con convinzione che sebbene sia stata propinata come un superamento di ogni ideologia, anche quella del merito si configura come una precisa e strutturata visione del mondo, ossia come un’ideologia vera e propria. Entro questo orizzonte la nozione di cittadinanza muta significato perché l’ideologia del merito non è strutturata in funzione dei diritti dei cittadini ma in relazione alle disponibilità, innanzitutto economiche, dei clienti. Sono questi ultimi “gli attori che competono per essere meritevoli agli occhi della società e si rivolgono al mercato per investire sul proprio capitale umano, per acquistare le competenze che, una volta certificate dai sistemi di valutazione, serviranno ad avere «successo nella vita»” (p. 136).
La verità è che la falsa illusione di una società meritocratica dimentica fin troppo facilmente che le condizioni di avvio da cui si parte nella gara per l’esistenza non sono mai identiche: “non c’è alcun merito nel nascere in questa o quella famiglia, in questo o quel quartiere. Non c’è alcun merito nel disporre sin dalla nascita di adeguati mezzi economici e culturali, e non c’è alcun demerito nel non possederne. La strada che l’ideologia del merito indica per superare le disparità sociali – l’uguaglianza delle opportunità – è costellata di false promesse. Se fossero sincere, dovrebbero tradursi in interventi dello Stato per «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»: così recita l’articolo 3 della Costituzione italiana” (p. 137).
In conclusione, un interessante lavoro che esplicita e chiarisce presupposti e contenuti dell’ideologia del merito. Perché l’operazione di restituire un senso alla formazione e alla trasmissione dei saperi, all’interno e al di fuori della scuola, in una dimensione di convivialità che leghi l’attenzione e la cura per l’autonomia individuale ai bisogni e alle esigenze della collettività, passa anche per operazioni di smontaggio e demistificazione dell’ideologia dominante quali quelle messe in campo dall’autore di questo bel libro.
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