La progressiva svalutazione dell’esame di Stato

Un attacco al valore legale del titolo di studio

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L’attacco al valore legale del titolo di studio è una delle mire almeno ventennali delle politiche liberiste in merito all’istruzione, un attacco che persegue due obiettivi specifici: 1. disarticolare ulteriormente l’accesso al mondo del lavoro, togliendo tutti quei “lacci” che al mondo imprenditoriale risultano sempre indigesti e che invece rappresentano delle garanzie costituzionali; 2. Spalancare la porta al sistema delle certificazioni, una fetta di mercato in parte ancora embrionale e capace di sviluppare ingenti profitti.

Non è certo un caso che all’esame di stato depotenziato del 2021, con la giustificazione in parte opportunistica della emergenza sanitaria, si sia accompagnato il varo del portfolio dello studente, uno strumento classista che certifica tutte le attività svolte sia all’interno della scuola (con focus particolare su tutte le attività tipiche della “neoscuola” come alternanza scuola-lavoro, progetti, ecc. ecc.) che all’esterno (corsi di musica, inglese, ecc. debitamente pagati e poi certificati).

Abbiamo di fronte due strumenti posti al termine del ciclo di studi: un esame di stato che garantisce uniformità ed eguaglianza e un portfolio che al contrario esalta la concezione ultraliberista dello studente-monade, artefice del proprio percorso scolastico diversificato per ognuno e perciò fortemente condizionato dalla provenienza culturale e d economica.

Affinché il portfolio dello studente acquisisca centralità è necessario depotenziare lo strumento storico della “certificazione”, cioè quell’esame di stato che garantisce uniformità a livello nazionale e che si erge come “certificatore pubblico”, gratuito e riconosciuto costituzionalmente.

Inoltre, in tempi di rilancio del progetto dell’autonomia differenziata, un esame uniformato e unico sul territorio nazionale rappresenta un ostacolo da eliminare per favorire la deregulation del sistema nazionale di formazione.

Nuovamente la pandemia, come succede in molti ambiti, viene utilizzata come pretesto per introdurre modifiche strutturali da cui difficilmente si tornerà indietro.

Quest’anno il ministro Bianchi (attirato da una parte da un appello firmato da migliaia di studenti che chiedevano un esame semplificato, e stretto dalla reazione del corpo docente e da appelli firmati da vari intellettuali) ha deciso di agire con gradualità; i “riformatori” lo sanno bene che le innovazioni palesemente regressive vanno introdotte con parsimonia, altrimenti si rischia di ottenere un’opposizione che farebbe mancare l’obiettivo.

E’ innegabile però che anche quest’anno l’esame di stato, nella sua caratteristica nazionale e costituzionale, esce depotenziato e, nonostante la soddisfazione di molti per il mantenimento della prova nazionale di italiano, il percorso pare tracciato e ne va colto, insieme all’aspetto didattico che molti osservatori hanno messo in evidenza, anche quello squisitamente politico, un altro dei tasselli  che giorno per giorno stanno affossando la scuola pubblica.

Oggi difendere l’esame di stato significa difendere la scuola pubblica dagli appetiti di chi punta da anni a svalutarla, a eliminarne la centralità e l’importanza, a minare il suo portato costituzionale. Stanno cercando di far scivolare la scuola italiana verso un luogo di certificazioni co-gestite con enti esterni, un modello di scuola che si sposa perfettamente con quella didattica per competenze, frammentata e segmentata, che a forza è entrata nel quotidiano della didattica.

La difesa dell’esame di stato è un fronte di lotta che va agito con determinazione per evitare che la pandemia sia sfruttata per far digerire più velocemente “riforme” impopolari e la cui regressività è sotto gli occhi di tutti.