Guazzabugli a catena

Il MIUR nel pallone su organico dell'autonomia, mobilità e ricorsi

L’assegnazione dei docenti di ruolo alle singole istituzioni scolastiche sta confermando che l’organico di potenziamento è l’elemento attraverso il quale la legge 107/15 pone una pietra tombale sulla scuola degli anni Settanta (la scuola della relazione, dell’accoglienza e della collegialità), attuando pienamente la scuola dell’autonomia (la scuola azienda, fondata sulla competizione e sulla subordinazione, monocratica e autoreferenziale).

In tale contesto la funzione docente, che sino ad ora si è realizzata, anche da un punto di vista contrattuale, nel processo di insegnamento/apprendimento e si è fondata sull’autonomia culturale e professionale dei docenti, risulta totalmente destrutturata e la libertà di insegnamento definitivamente compromessa. Il processo, già in atto dal 1997, cioè dall’istituzione della legge sull’autonomia scolastica, non si sarebbe potuto attuare senza la garanzia della reale subordinazione dei docenti al dirigente, perché questi, pur dotato di super poteri, avrebbe potuto sempre trovare insegnanti “contrastivi” e anche con la revisione dei poteri decisionali degli organi collegiali, la garanzia della propria libertà di insegnamento avrebbe comunque posto i singoli docenti al riparo da inutili, seppur radicali sanzioni. L’istituzione dell’organico di potenziamento, che comporta per il docente il ruolo triennale su ambito territoriale e non su scuola e la chiamata diretta del preside per presunte, non meglio identificate competenze, oltre che un colloquio “di ingaggio”, pone, invece, il docente in una posizione di totale subordinazione al proprio datore di lavoro, con la conseguente negazione di qualunque libertà di insegnamento e la riproposizione dell’istituzione scuola come dispositivo disciplinare e di controllo sociale. È per questo che i tentativi di “ammorbidire” tale facoltà dei dirigenti per via negoziale non ha alcuna efficacia reale, se non quella di far credere che i sindacati maggiormente rappresentativi “lottano” per la tutela dei lavoratori, mentre non fanno altro che il gioco del governo, smorzando il conflitto con l’illusione di una soluzione per via negoziale di norme sancite per legge, che rimangono invece saldamente in vigore.

Se consideriamo, peraltro, che le note ministeriali hanno provveduto a precisare che l’organico dell’autonomia non prevede differenze tra organico di fatto e di diritto, cioè tra posto comune e di potenziamento e che da quest’anno (per lo scorso ci sono state alcune deroghe) saranno considerati “potenziatori” i soprannumerari e i docenti che chiedono trasferimento, finendo negli ambiti territoriali e perdendo, così, la titolarità su classe, possiamo ben comprendere che fine farà l’autonomia culturale e professionale dei docenti.

Sino ad oggi si è avuto modo di osservare gli effetti dei cambiamenti introdotti nella scuola, dall’istituzione dell’autonomia scolastica in poi, attraverso uno studio, per così dire,“in vitro”, basato, cioè, sull’utilizzo di “cellule in coltura”che hanno permesso di vedere quali sarebbero potute essere le conseguenze di un’applicazione “piena” dell’autonomia scolastica, e ne sono stati puntualmente denunciati i pericoli; in quest’anno di transizione dell’applicazione della legge 107/15, si sono potuti, invece, valutare gli effetti dei cambiamenti nella scuola attraverso una sperimentazione “ in vivo”, cioè attraverso l’uso diretto dei “potenziatori”. Abbiamo potuto così vedere come, quasi ovunque (le eccezioni sono sempre presenti, ovviamente), i docenti sono stati utilizzati come jolly, a servizio come supplenti in ordini di scuola diversi non corrispondenti al proprio, oppure in insegnamenti non legati alla classe di concorso di appartenenza, o anche solo per fare ordine negli armadi e negli scaffali delle biblioteche o delle sale insegnanti. Alla mercè dei dirigenti e, dunque, disposti a tutto pur di compiacerli, molti docenti si sono resi persino disponibili a presentare nei collegi mozioni contro “anziani” docenti “contrastivi” o, spesso, a rifiutarsi di dare la propria firma per la presentazione dei referendum contro la chiamata diretta, lo stesso strapotere dei presidi, l’alternanza scuola lavoro, i finanziamenti dei singoli alle singole scuole-private o pubbliche, per paura di essere identificati come oppositori del “nuovo regime scolastico”.

Chiunque abbia avuto la possibilità di guardare al risultato di questa fase transitoria di applicazione della legge 107/15 attraverso una panoramica territoriale ampia, ha potuto così assistere alla trasformazione in atto nel corpo docente attraverso l’istituzione dell’organico di potenziamento e comprendere quali saranno le implicazioni etiche e pratiche di tale azione mutagena.

L’unica cosa che non è cambiata, anzi forse è aumentata con la cosiddetta “buona scuola”, è la quantità di ricorsi che continuano ad essere prodotti: contro l’ordinanza per la mobilità, i bandi concorsuali, l’esclusione dalle GAE degli abilitati. Emblematico in tal senso il ricorso presentato contro i trasferimenti, la cui applicazione ha comportato una disparità di trattamento tra docenti, denunciata dai neo immessi in ruolo fase B e C (gli unici a non aver avuto alcuna deroga nell’ordinanza ministeriale sulla mobilità firmata dalle organizzazioni sindacali cosiddette maggiormente rappresentative), che sono prima intervenuti contro la legge presso la Corte Europea, poi con l’impugnativa contro l’ordinanza stessa, infine contro l’atto amministrativo che ha sancito il trasferimento, avvenuto spesso in altra e lontana regione. La situazione è al di là dall’essere risolta e i tentativi di conciliazione con il ministero sono falliti per mancanza di posti o per proposte non accettabili da parte di alcune migliaia di docenti che hanno denunciato errori nell’applicazione dell’algoritmo utilizzato per i trasferimenti, ma che saranno costretti a trasferirsi a centinaia di chilometri di distanza, ad un’età che lega i docenti a figli, coniugi e genitori anziani, la cui cura è totalmente a carico dei singoli. Anche gli altri due ricorsi in campo fanno luce sulle trasformazioni in atto nel mondo della scuola determinata dall’applicazione della 107. Il ricorso contro i bandi concorsuali, infatti, ha contribuito a chiarire (attraverso i pronunciamenti del TAR) che, per la prima volta, la professione docente è “regolamentata”, cioè considerata come quelle del chirurgo, notaio, avvocato, psicologo per esercitare le quali occorrono requisiti di accesso e l’abilitazione, prima di poter svolgere la professione, assoggettandola così alla direttiva europea 2005/36/CE. Il ricorso per l’inserimento nelle graduatorie ad esaurimento (GAE) dimostra, invece, ancora una volta il tentativo, in atto dal 1999 (cioè ad Autonomia scolastica appena avviata) e sino ad ora sempre rintuzzato, di abolire il “doppio canale di reclutamento”, di cui la legge istitutiva delle Graduatorie Permanenti (da cui sono discese poi quelle ad esaurimento) è stato il primo tentativo. Non solo la legge recita che “La prima fascia delle graduatorie di circolo e d’istituto del personale docente ed educativo … continua a esplicare la propria efficacia, per i soli soggetti già iscritti alla data di entrata in vigore della presente legge, non assunti a seguito del piano straordinario di assunzioni” ma, ancora una volta, dopo la pubblicazione da parte del MIUR del decreto di integrazione delle GAE, sono stati esclusi i diplomati magistrali (per i quali oramai è stato più volte sancito il diritto ad essere inseriti nelle GAE), i docenti depennati dalle GAE per mancato aggiornamento, gli abilitati TFA, PAS e i laureati in Scienze della Formazione Primaria.

È evidente che non saranno però i ricorsi ad arginare la deriva verso cui sembra essersi abbandonata per inerzia la scuola, nonostante la generale presa di distanza dei docenti dal modello emerso dalla legge del governo Renzi (come ha testimoniato la stagione di mobilitazioni che ha preceduto l’approvazione della legge), distanza che non riesce, però, a divenire concreta alternativa e aperto,diffuso, dissenso. È anche evidente, però, che in tale situazione occorre ricostruire un clima educativo nel quale per primo l’insegnante riacquisisca il senso e l’importanza dell’agire in una dimensione in cui il pensiero divergente sia assunto come espressione e modalità educativa. Per questo, a parer mio, non si possono semplicemente continuare a riproporre mobilitazioni a schema fisso, ma vanno cercati, insieme, momenti di concreto approfondimento e di analisi, di condivisione e aggiornamento collettivo, attraverso convegni, conferenze, seminari, una pratica della quale il Centro Studi per la scuola pubblica – CESP – in questi anni ha dimostrato l’alto valore formativo.