E io pago

ITS: carrozzoni privati finanziati con i soldi pubblici

photo credits: Shane Rounce on Unsplash

Grazie ad un lauto stanziamento di 1,5 mld previsto nel Recovery Plan sono balzati agli onori delle cronache i semisconosciuti Istituti Tecnici Superiori (ITS).

 

Cosa sono gli ITS

Si tratta di una particolare forma di istruzione di specializzazione tecnologica, nata nel 2010 come uno dei tanti perniciosi cambiamenti imposti dal governo Berlusconi, con la ministra Gelmini. Stiamo parlando di un ente di formazione di livello post-secondario non universitario di durata solitamente biennale. Rappresenta, in sostanza, un livello di formazione terziaria con scopo professionalizzante, in quanto ha l’obiettivo di sfornare figure denominate “tecnici superiori“, specializzati nelle seguenti sei aree tecnologiche:

  • Efficienza energetica,
  • Mobilità sostenibile,
  • Nuove tecnologie della vita,
  • Nuove tecnologie per il Made in Italy (agroalimentare, casa, meccanica, moda, servizi alle imprese),
  • Tecnologie innovative per i beni e le attività culturali – Turismo,
  • Tecnologie della informazione e della comunicazione.

Il modello degli ITS sono la Fachhochschule (Scuola di alta formazione) tedesca o il Brevet Technicien Supérieur (Licenza di tecnico superiore) francese, accomunate negli intenti di:

  • cercare di favorire l’inserimento diretto nel mondo del lavoro;
  • rispondere alla richiesta delle aziende di personale con formazione terziaria, dotato di esperienza pratica;
  • essere il naturale proseguimento di un precedente percorso formativo svolto in alternanza scuola-lavoro.

 

La gestione privatistica

La natura privatistica degli ITS si evidenzia dalla loro gestione: ciascuno di essi è affidato ad una fondazione a cui partecipano: un Istituto Tecnico o Professionale, un dipartimento universitario, un ente formativo accreditato dalla Regione, Enti Locali e una o più aziende. Il tutto sostenuto dai finanziamenti di Regioni e Stato ma anche da borse di studio di privati: l’INPS per il corrente anno ha offerto 4 milioni di euro per 100 iscritti.

A conferma della subordinazione di questi Istituti agli interessi aziendali concorrono le seguenti loro caratteristiche:

  • almeno il 30% della durata dei corsi svolto in azienda,
  • corpo docente proveniente per almeno il 50% dal mondo del lavoro,
  • commissioni d’esame costituite da rappresentanti della scuola, dell’università, della formazione professionale ed esperti del mondo del lavoro,
  • possibilità di svolgere l’esperienza lavorativa in azienda in regime di apprendistato.

Peccato che a pagare tutto ciò non siano le imprese coinvolte ma il pubblico erario.

 

Istruzione e mondo del lavoro

Con tutta evidenza si tratta di un tipo di istruzione strettamente connessa alle esigenze aziendali di formare figure professionali qualificate capaci di rispondere alle necessità produttive delle imprese.

Molti si chiederanno: che male c’è a legare l’istruzione al mondo lavoro? Non ci ripetono in tutte le salse che il problema della disoccupazione si risolve in questo modo? Che la scuola deve stare al passo coi tempi e adeguarsi alle giravolte di mercati e aziende, perché così cresce il sistema Paese e tutti vivremo felici e contenti?

Noi dei Cobas siamo stati tra i pochi a denunciare e tentare di contrastare quello che abbiamo chiamato il processo di aziendalizzazione dell’istruzione, dispiegatosi negli ultimi due decenni.

Tale processo assume due aspetti complementari:

  • subordinare gli obiettivi scolastici agli interessi delle aziende: a titolo di esempio eclatante, ricordiamo l’introduzione tra le competenze chiave da far conseguire nella scuola secondaria quella imprenditoriale. Nelle università l’ingerenza delle imprese è ben conosciuta ed è cominciata molto tempo prima che nelle scuole.
  • strutturare l’organizzazione di scuole e università sul modello gerarchico delle aziende: Dirigenti scolastici, staff, Funzioni strumentali, RAV, classificazioni con l’INVALSI…

Il problema di tutto ciò è che un’azienda ha obiettivi molto diversi, se non opposti, a quelli degli enti d’istruzione pubblici. L’obiettivo di un’azienda è quello di procurare il massimo profitto economico alla proprietà, senza badare a:

  • l’utilità sociale di quanto prodotto: va tutto bene (armi, pesticidi tossici per l’agricoltura, oggetti monouso in plastica…) purché procuri utili;
  • la compatibilità ambientale dei processi produttivi: abbiamo ben presenti i disastri a danno di persone e territorio dall’ex ILVA di Taranto alla Nigeria e al Congo;
  • il rispetto dei diritti sindacali e civili: pensiamo alle inique condizioni di lavoro dei dipendenti di Amazon o dei riders nei Paesi a capitalismo avanzato oppure a quelle ancora peggiori degli operai in Cina, Bangladesh, Thailandia… in cui sono fabbricati tantissimi prodotti (in gran parte per multinazionali USA e UE) commercializzati in tutto il pianeta.

Scopo dell’istruzione, fino ad ora, è la formazione di cittadini quanto più possibile in grado di prendere parte attivamente alla vita sociale. Nella vita sociale è ovviamente compreso il lavoro, ma è altrettanto scontato che debba essere un lavoro conforme alle leggi e rispettoso dei diritti inalienabili che contrassegnano un’esistenza dignitosa.

 

Il fallimento degli ITS

Come dicevamo, nel 2010 venne generato un sistema bipolare di istruzione di terzo livello: da una parte le Università (soggette al processo di aziendalizzazione predetto) e gli ITS (totalmente strutturati e asserviti agli interessi aziendali).

Se volessimo valutare il rendimento degli ITS (non predicano quotidianamente i loro sostenitori l’applicazione di criteri meritocratici per i dipendenti delle scuole e delle università?) potremmo tranquillamente esprimere un giudizio assai negativo. Anche se stiamo trattando di un settore estremamente opaco, soggetto al controllo dell’INDIRE, i cui dati più recenti risalgono al 2018.

Secondo l’inserto del Sole24ore (quotidiano di Confindustria entusiasta paladino degli ITS) del 24 marzo 2021, dedicato proprio agli ITS, che riporta dati relativi al 2020:

  • le Fondazioni che gestiscono gli ITS sono 102 (secondo altre fonti 109), la maggior parte concentrata nel Nord Italia, in grado di attivare 119 indirizzi,
  • gli iscritti sono 4.447 ma non sono compresi i dati di ben 26 corsi che non li forniscono;
  • gli ITS hanno ricevuto 75mln di euro dallo Stato nel 2020.

Il numero degli iscritti (che possiamo approssimare a 5.000, inglobando quelli di cui non si forniscono i dati) son ben poca cosa a fronte del numero di studenti che frequentano le superiori o i soli Istituti Tecnici e Professionali italiani e degli oltre 900mila delle Fachhochschulen tedesche.

Difficile trovare stime certe di quanti hanno frequentato gli ITS dalla loro istituzione ad oggi: una cifra riportata da varie fonti si aggira sui 18.000 che corrisponde a meno dell’1% degli studenti che si sono diplomati nello stesso periodo.

Anche rispetto al tasso di occupazione dopo il conseguimento del titolo gli ITS non sono particolarmente efficaci: secondo l’OCSE si attestano all’82%, rispetto all’83% delle lauree magistrali e del 73% delle triennali.

Insomma un baraccone, tenuto in piedi con i soldi pubblici, che non risponde alle esigenze dei giovani italiani ma solo a quelle di un esiguo numero di aziende.

 

ITS e Recovery plan

A fronte del descritto disastro, con il Recovery plan arriva il piano di salvataggio degli ITS attraverso:

  • un finanziamento di 1,5 mld di euro,
  • un’integrazione dei percorsi ITS con il sistema universitario delle lauree professionalizzanti“.

 

Difficile fare previsioni su come il governo interverrà a proposito delle lauree professionalizzanti e su come avverrà la proclamata integrazione degli ITS con l’università. Di sicuro c’è solo l’ulteriore finanziamento di un miliardo e mezzo per un baraccone privatistico rivolto a uno sparuto numero di studenti, mentre non abbiamo visto risorse sufficienti destinate a scuole e università pubbliche (frequentate da milioni di studenti) per reperire/costruire/ristrutturare spazi adeguati allo svolgimento delle lezioni.