La scuola non è un mondo a parte rispetto al resto della società. E la società che comprende la scuola come sua parte non è mai una società in astratto ma una particolare formazione sociale storicamente determinata. Pertanto l’istituzione scolastica è sempre condizionata dal tipo di società in cui essa è chiamata a svolgere una serie di funzioni che i gruppi sociali dominanti richiedono. La stessa genesi della moderna scuola pubblica in Italia e in Europa va vista non solo nei termini di una estensione del diritto all’istruzione e alla conoscenza, ma anche come un risposta che lo Stato-nazione moderno, tra Ottocento e Novecento, dava a un preciso insieme interrelato di problemi che esso si poneva: come formare il soggetto-cittadino/a che si integri nella nuova forma-Stato? E come formare il soggetto-lavoratore/trice che si adatti al modo di produzione capitalista ormai affermatosi? La genesi e il funzionamento della scuola pubblica e di massa vanno quindi compresi all’interno di una dialettica, spesso conflittuale, tra le lotte delle classi popolari e in genere dei subalterni e delle subalterne, da una parte, e gli interessi perseguiti dalla borghesia e dal suo Stato, dall’altra.
Posti di lavoro armati
Ritengo che questa premessa, pur nella sua generalità, sia fondamentale per inquadrare e mettere in discussione il fenomeno che è l’oggetto di questo articolo: il rapporto tra la scuola pubblica contemporanea, le Forze Armate e le Forze dell’Ordine. Questo rapporto, sicuramente troppo complesso da sviscerare in un breve articolo come questo, è di lunga data e probabilmente nasce con la stessa istituzione della scuola pubblica ed è da addebitare in primo luogo alla funzione ideologica assolta dalla scuola come luogo di formazione del cittadino disciplinato, rispettoso delle leggi e amante della patria. In tempi più recenti, pur non venendo mai a mancare il forte ruolo simbolico dei corpi armati dello Stato nella (auto)rappresentazione della Nazione, militari e poliziotti sembrano sopratutto inserirsi in quegli spazi che la scuola sempre di più ormai sta lasciando liberi al mercato, per cui esercito, marina, aeronautica, carabinieri e polizia si presentano a ragazze e ragazzi come soggetti che offrono lavoro, quindi come possibile esito finale dei loro studi.
Aule gallonate
Il 15 dicembre 2017 è stato sottoscritto dai rappresentanti dei Ministeri della Scuola, della Difesa e del Lavoro un protocollo d’intesa per la mutua collaborazione nell’ambito dell’Alternanza Scuola-Lavoro (ora rinominata Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento). Più le tante convenzioni e accordi a livello locale che si stanno moltiplicando a dismisura. Mentre con l’Arma dei Carabinieri il Miur ha siglato un Protocollo d’intesa il 20 marzo 2019. In questo caso sembra si tratti soprattutto di una sorta di appalto alla Benemerita dell’educazione civica e morale degli studenti e delle studentesse sotto forma di educazione alla legalità, alla prevenzione del bullismo, della violenza sulle donne, dell’uso di stupefacenti ecc. Ma parallelamente si procede a tutto un lavoro di costruzione dell’immagine dell’Arma che assume i contorni di un vero e proprio marketing pubblicitario che deve rendere il carabiniere o la carabiniera un modello di riferimento e la loro professione appetibile e ambita (a questo servono, per esempio, le visite guidate ai Comandi territoriali, ai Reparti specializzati, ai musei e agli archivi dell’Arma). Per quanto riguarda la Polizia di Stato, invece, gli accordi col mondo della scuola al momento sembrano avvenire sul piano locale (Regione, Provincia, Comuni). Ma per quanto concerne contenuti, forme e scopi delle collaborazioni, quanto detto per l’Arma dei Carabinieri vale grosso modo anche per la Polizia di Stato.
Tutto questo rientra in quel rapporto costitutivo e di lunga durata tra apparati dello Stato come la Scuola, le Forze Armate e le Forze dell’Ordine. Questo rapporto nel tempo ha avuto i suoi momenti di massima identificazione, come sotto il fascismo, e di rottura, come negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Oggi questo rapporto sta ritornando ad essere pericolosamente simbiotico, questa volta nella forma pervasiva della logica di mercato: la simbiosi che si sta creando è quella tra la scuola come dispositivo di riproduzione della forza-lavoro e i corpi armati dello Stato come modelli professionali e di vita.
L’effetto cognitivo di questa simbiosi è che diventa sempre più difficile farsi domande del tipo: perché a parlare dei rischi della Rete deve essere la polizia e non degli esperti informatici? Perché a parlare di violenza di genere devono essere delle poliziotte e non delle antropologhe o delle attiviste femministe? Perché a quella che oggi viene chiamata “offerta formativa” va aggiunta l’ ”educazione alla legalità” affidata alle forze dell’ordine e non invece un’educazione allo studio e alla comprensione di che cosa sia e cosa può (non) essere la legge, educazione affidata all’insegnante di filosofia, o di storia, o di diritto, o di scienze sociali? Le condizioni di possibilità per queste e altre domande sembrano ridursi sempre di più. L’intrusione dei corpi armati dello Stato in forma di educatori nei luoghi di (ri)produzione del sapere diventa anche una militarizzazione e una polizia del sapere stesso. Come si può criticare l’ordine costituito se esso manda a scuola, luogo della conoscenza e della discussione, i suoi tutori armati? E come si può criticare i tutori armati di questo ordine specialmente quando esso si autodefinisce “democratico”?
C’è chi dice NO!
Verso tutto ciò, a partire dal mondo della scuola, ci sono un consenso e una indifferenza diffusi. Tuttavia, e per fortuna, le resistenze, i dissensi e la critica non mancano. Lo scorso anno al Liceo “Marco Polo” di Venezia buona parte del corpo studentesco e del corpo docente ha boicottato la conferenza con due militari ideata dal dirigente scolastico in vista della ricorrenza del 4 novembre: da obbligatoria riescono a farla diventare facoltativa e da facoltativa si presentano all’iniziativa pochissimi studenti. A Lecco l’Unione degli Studenti denuncia che alcuni studenti del Liceo “Grassi” dovrebbero svolgere l’ASL presso la fabbrica di munizioni Fiocchi e per questo motivo hanno organizzato un presidio di fronte alla fabbrica e un corteo. Hanno condiviso questa protesta anche alcuni insegnanti. Nel 2018 invece Antonio Mazzeo, insegnante all’ICS “Cannizzaro – Galatti” di Messina, è stato sottoposto a procedimento disciplinare per aver osato criticare la presenza e l’esibizione a scuola di una delegazione della Brigata Aosta con la sua banda musicale. Questi sono solo degli esempi e ad essi naturalmente dobbiamo aggiungere gli interventi dei Cobas tutte le volte che si presentano situazioni del genere.
Smilitarizzare la scuola
Circa la resistenza che possiamo opporre alla militarizzazione e alla polizia delle coscienze e dei corpi nelle scuole, oltre agli esempi sopra citati, in fondo potrebbero essere prese in seria considerazione proprio le parole dell’assessora all’Istruzione della Regione Veneto Elena Donazzan scagliatasi contro i docenti che si sono opposti all’iniziativa militarista del dirigente del Liceo Marco Polo: “Dimostrano un atteggiamento sovversivo, perché contestare le forze armate significa disobbedire alle leggi e all’ordinamento dello Stato”. Spesso l’argomento impiegato per opporsi alla presenza dei militari a scuola è l’articolo 11 della Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra …”). Ma questo non significa certo che le forze armate non rientrino comunque tra le istanze fondamentali dello Stato. Da un punto di vista della realizzazione materiale della Costituzione formale un obiettivo potrebbe essere quello della perfetta separazione tra istituzioni scolastiche e istituzioni militari: ognuna fa il suo e nessuna invade l’altra. Tutto sommato sarebbe già un traguardo storico. Tuttavia ‒ a parte il fatto che ciò non toccherebbe polizia e carabinieri (posso sbagliarmi, ma nulla parrebbe ci sia nella Costituzione che possa essere richiamato per sostenere una critica “separatista” a questi corpi dello Stato) ‒ ciò comunque eluderebbe il problema della natura storica e della ragione sociale delle forze armate. Le parole di scandalo e di indignazione di Donazzan, invece, malgrado chi le ha proferite e il senso che le ha dato, o forse proprio perché erano le parole dello Stato per bocca di una sua funzionaria, ci indicano una possibilità insieme teorica e politica, che va colta nel risvolto di verità nascosto dietro ogni mistificazione ideologica: e se la posizione più giusta, onesta e radicale fosse proprio quella di essere sovversivi? Cioè di contestare militari, carabinieri e polizia per quello che sono: i tutori di un ordine sociale e globale che non ci piace perché lo riteniamo profondamente ingiusto e che quindi non ci rappresentano.
A scuola, certamente, questa critica radicale si fonderebbe anche su una forte base pedagogica: a che prezzo si può giustificare la ratio educativa alla base dell’idea che per delle bambine e dei bambini, dei ragazzi e delle ragazze sia giusto e naturale prendere a modello il militare o la poliziotta, ovvero, detto crudamente, un soggetto addestrato ad uccidere e un soggetto addestrato a difendere l’ordine di per sé, qualunque esso sia? Se non possiamo porci liberamente e pubblicamente questa domanda siamo ben lungi dalla possibilità di trasmettere una reale conoscenza critica ed esercitare un reale pensiero critico: una scuola è critica se innanzitutto può criticare se stessa, altrimenti è vuota retorica liberale funzionale al mantenimento degli attuali assetti di potere. Invece dovremmo fare della scuola il primo luogo in cui l’ordine sociale pone se stesso liberamente in discussione, cioè il luogo in cui la scuola e la società pensano il superamento di se stesse. Per questo a militari, carabinieri e poliziotti nella scuola dovremmo dire con decisione: no, grazie.
Commenti recenti