Nel corso dell’ultimo anno è entrata in maniera preponderante nel discorso pubblico italiano un’espressione dai contorni poco definiti e di difficile analisi ma, forse proprio per questo, di sicuro effetto mediatico. Mi riferisco al lemma teoria del gender o ideologia gender, espressioni oscure per quanto riguarda un possibile quadro teorico o paradigma di riferimento, come la prima espressione suggerirebbe, ma sicuramente espressioni ben delineate se si va ad analizzare la loro origine ma soprattutto la loro funzione politica. Difatti non ci troviamo difronte ad una disputa teorica ma ad un dispositivo retorico che, rappresentando in modo mistificatorio studi e ricerche internazionali di lunga data (i gender studies), crea il monstrum gender utile per contrastare in Italia le recenti intenzioni politiche per il riconoscimento dei diritti civili delle persone omosessuali e per impedire che nelle scuole pubbliche vengano realizzati progetti e iniziative per il contrasto dell’omofobia e il superamento degli stereotipi di genere.
Ma chi sono coloro che si scagliano contro la teoria del gender e a cosa farebbero riferimento con questa espressione? Senza dubbio l’espressione trova la sua genesi nell’ambito della Chiesa cattolica, quando i suoi massimi esponenti (Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio ma anche cardinali, arcivescovi e monsignori di varia provenienza), a partire dalla metà degli anni Novanta in poi iniziarono a contestare la lettura storica e socio-culturale del concetto di genere, sviluppatasi in ambito scientifico e accademico nei precedenti decenni, ribadendo l’esclusiva realtà naturale e biologica della dimensione femminile e maschile. Il tutto poi si rafforzò e diventò strategia politica quando in Francia e in Italia iniziarono a prendere corpo disegni di legge per il contrasto dell’omofobia e per il riconoscimento dei diritti delle coppie formate da persone dello stesso sesso.
Ma è partire dal 2012 che l’espressione diventa uno strumento di mobilitazione politica che dall’ambito delle gerarchie ecclesiastiche si diffonde tra gruppi e associazioni che negli ultimi anni agiscono capillarmente sui media, nelle piazze, nelle istituzioni e nelle parrocchie per presentare la teoria del gender come un tentativo di colonizzazione ideologica mirata a distruggere la cosiddetta famiglia “naturale” e a sovvertire le norme di genere che, a loro avviso, hanno regolato il mondo fin dalla sua creazione. Il discorso potrebbe sembrare quasi paranoico e di scarsa credibilità ma associazioni e movimenti come Giuristi per la Vita, Sentinelle in Piedi, Manif pour Tous Italia, Comitato Difendiamo i nostri figli negli ultimi due anni hanno intrapreso numerose e diffuse campagne mediatiche e manifestazioni di piazza, culminate nel Family day del giugno scorso a Roma, attraverso le quali hanno agitato lo spauracchio della teoria del gender che lo stesso Bergoglio non ha esitato ad associare esplicitamente alla campagne ideologiche messe in atto nel corso delle dittature del Novecento attraverso i balilla e la gioventù hitleriana.
Come si vede la retorica non difetta, le immagini da fine del mondo si sprecano ma soprattutto quello che non manca è la rappresentazione caricaturale di ricerche e teorie che a partire dagli anni Cinquanta in Europa e poi negli USA hanno elaborato, attraverso un approccio multidisciplinare in ambito accademico, femminista e lesbo-femminista, una visione complessa e articolata del concetto di genere, che scardinasse una visione rigidamente naturale e gerarchica delle differenze tra uomo e donna, mettendo invece in evidenza le caratteristiche storiche e culturali di questo concetto. Come scrive J. Butler nella prefazione al suo libro Questione di genere, “… la sfida sta nel mettere in questione verità date per scontate che, proprio per il fatto di essere scontate, diventano in realtà oppressione”.
Ora la questione in gioco non è certo le differenze biologiche che determinano l’appartenenza al sesso femminile o a quello maschile, ma il concetto di genere inteso come insieme di norme, determinate socialmente e storicamente, alle quali le donne e gli uomini dovrebbero uniformarsi per essere pienamente se stessi. In altri termini ciò che la società si aspetta da un bambino e da una bambina, da una ragazza e da un ragazzo, da una donna e da un uomo, viene in sostanza presentato come un insieme di norme a cui adeguarsi, prevedendo al contempo le relative sanzioni sociali per chi le trasgredisce. Per citare solo due esempi, facendo riferimento all’ambito scolastico, pensiamo al tragico caso di Andrea Spezzacatena, studente del Liceo Cavour di Roma, denigrato e isolato dai suoi compagni per il suo modo di vestire e di atteggiarsi, morto suicida nel 2012, o al recente caso di un insegnante veneto presentatosi in classe in abiti femminili (in corrispondenza alla sua identità di genere) e fatto oggetto di una campagna diffamatoria da parte di rappresentanti politici con ruoli istituzionali. È chiaro che il genere non deriva soltanto dalle caratteristiche del corpo ma anche e soprattutto dall’educazione che viene impartita, di conseguenza le norme di genere come tutte le norme possono essere contestate, riformate o abolite, soprattutto quando queste sono espressione di dominio, omologazione e controllo sociale.
In questo senso l’omofobia rappresenta quell’insieme di atteggiamenti e comportamenti che, partendo proprio da una prospettiva ingabbiata dei ruoli e delle espressioni di genere, impone l’eterosessualità come normativa e “naturale” in quanto riproduttiva mentre l’omosessualità viene letta attraverso le categorie dell’innaturale e della perversione. Una prospettiva che favorisce quindi la deumanizzazione dell’altro perché omosessuale o perché non conforme alle norme di genere, esponendolo quindi alla derisione, alla denigrazione, all’isolamento, alla violenza fisica e verbale.
Il piano non è dunque quello di un confronto teorico o di un dibattito culturale: a chi agita il fantasma del gender come un manganello, che sia un papa o un esponente politico, non interessa certo confrontarsi su un piano scientifico. La battaglia è tutta ideologica, nel senso deteriore del termine, tesa a impedire il riconoscimento di diritti, la libertà di esprimere la propria identità, il contrasto delle discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere.
Chi lavora nella scuola pubblica ed ha ancora fiducia nella sua forza di cambiamento conosce bene l’importanza di prendere sul serio l’omofobia affrontandola come un problema che riguarda l’intera comunità scolastica. La formazione e il coinvolgimento del personale scolastico, gli interventi educativi per contrastare gli atteggiamenti omofobici a scuola, l’attenzione e la riflessione sul linguaggio (dall’offesa peggiore come frocio o checca al termine categoriale gay o lesbica usato come un insulto generico): tutte queste sono strategie utili per tutti gli studenti, sia quelli che si identificano come lesbiche o gay e che trovano aiuto ed esperienze positive, ma anche per tutti gli altri, stimolati a rivedere i propri stereotipi sul genere e sul sesso, su ciò che significa essere maschi e femmine, ma soprattutto incoraggiati ad abbandonare l’idea che per affermare la propria identità bisogna escludere quella dell’altro.
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