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Il 25 marzo scorso si è avuta l’ultima delle mobilitazioni di FFF a livello nazionale, 3 anni dopo la prima manifestazione a livello mondiale (15 marzo 2019). In questi tre anni, se da un lato è aumentata di molto l’attenzione mediatica, sul piano concreto non si è fatto il benché minimo passo avanti. La crisi pandemica ha avuto, paradossalmente, un effetto positivo sulle emissioni climalteranti nel momento del massimo lockdown dove si è registrato un sensibile calo delle emissioni di CO2 , il più alto, in realtà sostanzialmente l’unico, che si è registrato negli ultimi decenni: il dato impressionante è che ci vorrebbe un lockdown di quel tipo ogni anno per riavvicinarsi ai limiti di sicurezza per le emissioni del principale gas serra. Ovviamente gli effetti benefici sono stati quanto mai passeggeri, in breve tempo il livello di emissioni è ritornato ai soliti insostenibili livelli ed al contempo vi è stato un enorme aumento nella produzione di materiali di scarto provocato dall’impennata dell’usa e getta e dalla logica del “monouso” imposto dalla pandemia. Il fatto stesso che per vedere una diminuzione, peraltro non permanente, del livello di emissioni sia stato “necessario” un lockdown come quello imposto dalla pandemia, dovrebbe far ben riflettere sul grado di insostenibilità dell’attuale modello economico, produttivo e di consumo. Nell’attualità, al netto della propaganda e dei vuoti slogan su “transizione ecologica” e/o “green new deal”, dobbiamo registrare il fallimento sostanziale delle ultime COP e come i combustibili fossili e tutta l’economia connessa siano ancora al centro della geopolitica mondiale: e basta considerare le implicazioni della guerra in Ucraina per rendersene conto.
In Italia, come spesso accade, si rischia di sfociare nel ridicolo, tanta è l’ipocrisia messa in campo dalle istituzioni; il sedicente ministro della “transizione ecologica”, vero uomo dell’Eni e del comparto “fossili”, ben lungi dal mettere in moto percorsi reali di uscita, o almeno di alleggerimento, dalla nostra dipendenza dai combustibili fossili vagheggia di ritorni al carbone o addirittura al nucleare e suggerisce l’idea che la cosiddetta “transizione energetica” debba essere giocoforza molto costosa e totalmente a carico della popolazione; con il fatto che, anche grazie alla terribile impennata dei prezzi dei combustibili fossili (metano in primis), il senso comune della maggior parte della popolazione stia virando su una forte avversione alle proposte di contenimento delle emissioni climalteranti.
Addirittura, ora si cerca di far passare l’idea che, al fine di liberarci della dipendenza dal gas russo, ci si debba orientare verso l’approvvigionamento di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti, rilanciando i progetti dei rigassificatori da installare nei porti italiani, senza tenere minimamente in conto né dei costi, né delle problematiche ambientali ed energetiche [la gestione del metano liquefatto risulta molto costosa dal punto di vista energetico e molto impattante dal punto di vista dell’effetto serra, infatti bisogna ricordare che le perdite di metano sono inevitabili e che lo stesso ha un effetto serra 80 volte maggiore dell’anidride carbonica]. Tutto questo mentre lo stesso aumento dei prezzi potrebbe fungere da volano per rilanciare gli investimenti in ricerca e impianti di produzione legati alle fonti rinnovabili che, al momento, risulterebbero assolutamente convenienti e sono le sole che garantirebbero una reale indipendenza nell’approvvigionamento energetico al paese.
Ci sarebbe da approfondire, ma questo è sufficiente per farci capire come non sia assolutamente concepibile un’uscita positiva dalla crisi ambientale e climatica senza un netto cambio nell’attuale modello economico, produttivo, di consumo e di relazioni sociali. Nelle scuole ora si sprecano i corsi di formazione e le parole legate a vaghi concetti di “ecosostenibilità” o “tecnologie verdi” [tutto è “verde” ormai], ma spesso ci si limita ad inquadrare i problemi dal punto di vista del comportamento individuale, come se fossero sufficienti i comportamenti corretti delle persone per risolvere i problemi: qui si cela o un grossolano e ingenuo errore o, peggio, una voluta mistificazione. E’ evidente che comportamenti corretti [anche se poi andrebbe ben definita concretamente questa “correttezza”] da parte della maggioranza della popolazione avrebbero effetti benefici sulle criticità ambientali e climatiche, ma è altrettanto vero che non lì che può essere trovata la soluzione alle stesse criticità. Fino a che non si diffonderà la consapevolezza che è l’attuale modello di sviluppo imposto dal sistema capitalistico ad essere non compatibile con l’ambiente, non ci saranno “comportamenti corretti” in grado di risolvere la situazione. Occorre denunciare un modello basato sull’estrattivismo, sul mito insostenibile della crescita continua e sull’ignorare il fatto che noi siamo confinati su di un pianeta che è un sistema chiuso con risorse materiali finite. E’ necessario fare molta attenzione nell’affrontare questi temi, evitando che la demagogia dei “comportamenti corretti” divenga una forma di colpevolizzazione del singolo e sia assolutoria nei confronti del sistema: deve essere chiaro come la reale soluzione stia nel cambio del sistema e che i comportamenti individuali, per quanto necessari, non sono assolutamente in grado di dare una risposta definitiva e risolutiva, che può essere trovata solo nella costruzione di un modello politico, sociale e produttivo alternativo a quello presente.
Qui può stare la parte del contributo da dare come COBAS, non solo nella scuola ma in tutta la società: per questo dobbiamo cercare convergenze con tutti i soggetti genuinamente impegnati sui temi e a tal fine nell’ultima Assemblea confederale si è costituito un Gruppo di lavoro che ha proprio l’obiettivo di rilanciare e potenziare il nostro intervento in materia.
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