photo credits: Kevin Dooley
Il D.lgs. n. 59 del 13 aprile 2017 sul sistema di formazione iniziale e di accesso ai ruoli di docente nella scuola secondaria di I e II grado introduce alcune novità interessanti e potenzialmente positive.
Innanzitutto viene finalmente invertito l’ordine dei due principali termini del discorso, cioè formazione e reclutamento. Il decreto legislativo, infatti, prevede di effettuare prima il reclutamento, attraverso un concorso ordinario, e poi la formazione dei vincitori che, “previo superamento delle valutazioni intermedie e finali” di un percorso triennale di studio, tirocinio e inserimento nella funzione di docente, accedono al contratto a tempo indeterminato. In secondo luogo la formazione non è più a carico degli aspiranti docenti come è avvenuto finora, bensì a carico dello Stato ed è retribuita.
Un notevole passo avanti rispetto al recente passato, che manda in soffitta in un colpo solo la breve e controversa stagione dei TFA, dei PAS e dei concorsi riservati (solo) agli abilitati. Purtroppo, però, una serie di altre disposizioni contenute nel testo rischiano non solo di annullare gli effetti positivi dei presupposti appena indicati, ma anche di creare una situazione peggiore di quella attuale. Di seguito proverò a spiegare perché.
Innanzitutto va detto che il provvedimento si inserisce pienamente nel nuovo sistema di assunzione su ambito territoriale e della individuazione per competenze, quindi del precariato di ruolo. Non vi sono modifiche in questo senso rispetto a quanto introdotto con la legge 107/2015 e ciò costituisce di per sé uno dei principali punti critici.
Assolutamente inaccettabile e da rispedire in toto al mittente anche la netta separazione che si prefigura tra i percorsi formativi degli insegnanti curricolari e quelli per gli insegnanti di sostegno: chi sceglierà di concorrere per i posti di sostegno, infatti, potrà, o meglio, dovrà acquisire direttamente il diploma di specializzazione in pedagogia e didattica speciale per le attività di sostegno didattico e inclusione scolastica, senza prima aver conseguito l’abilitazione su una disciplina; qualora un giorno decidesse di “passare su materia”, quindi, dovrebbe fare un altro concorso e un ulteriore percorso di formazione. Questo provvedimento creerà una pericolosissima distinzione tra le due tipologie di insegnanti e, insieme alle disposizioni contenute nello specifico decreto legislativo sull’inclusione scolastica (il n. 66 del 13 aprile 2017), rischia di distruggere uno dei principali fiori all’occhiello della scuola italiana.
Controversa e in palese contraddizione con l’impianto complessivo del riordino – che prevede, come si è già detto, prima il reclutamento e poi la formazione didattico-pedagogica dei docenti – la necessità di possedere, tra i requisiti per accedere al concorso, 24 crediti formativi universitari o accademici (CFU/CFA) nelle discipline antropo-psico-pedagogiche e nelle metodologie e tecnologie didattiche. Nell’immediato, è chiaro il regalo offerto alle Università (pubbliche e private) ed all’Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica che, in seguito alla recente emanazione di un apposito decreto ministeriale (il n. 616 del 10 agosto 2017), sono già all’opera per confezionare invitanti e forfettari pacchetti di esami aggiuntivi da vendere a 500 euro a tutti i laureati che ne sono sprovvisti. Nel medio-lungo periodo, invece, questo provvedimento può comportare una canalizzazione preventiva di molti percorsi universitari in direzione dell’insegnamento con un conseguente impoverimento dei contenuti disciplinari degli stessi. Più coerente e sensato sarebbe, forse, riservare lo studio di queste materie e l’acquisizione dei relativi crediti all’interno del “percorso triennale di formazione iniziale, tirocinio e inserimento nella funzione di docente”, il cosiddetto FIT, cui si accede dopo aver superato il concorso.
Spostando per l’appunto l’attenzione sul FIT, invece, appare subito evidente l’inadeguatezza della retribuzione dei primi due anni di corso: 400 euro al mese per il primo e la stessa cifra sommata al compenso di alcune supplenze brevi e saltuarie, i cui contratti non possono superare la durata di quindici giorni, non offrono certo le condizioni ideali per dedicarsi “a tempo pieno” (così recitava lo Schema di decreto prima di adottare formule meno impegnative nella versione definitiva) alla propria formazione, senza il bisogno di ricorrere a ulteriori introiti e avere quindi un altro lavoro. Il tutto si somma all’eccessiva lunghezza e alla singolare tortuosità del FIT: tre anni di formazione sono francamente troppi (due sarebbero più che sufficienti) e i diversi momenti di valutazione intermedia in essi disseminati – frutto della retorica ossessione per il controllo e la selezione continui che tanta breccia hanno fatto nel cuore dell’opinione pubblica in questi ultimi anni – lo rendono un vero e proprio percorso a ostacoli. Una soluzione accettabile in questo senso potrebbe essere quella di eliminare un anno (nello specifico il secondo), retribuire entrambi i rimanenti – non solo l’ultimo – in modo equivalente a una supplenza annuale e ridurre i vari step di verifica ad un unico momento di valutazione finale, un po’ come avveniva ai tempi della SSIS.
Sempre a proposito del FIT, inoltre, è davvero difficile comprendere le motivazioni alla base della disposizione che prevede la necessità di rifare il concorso per chi non supera l’esame finale. Come se il motivo del fallimento potesse essere legato a carenze di preparazione teorica. Molto più sensato far ripetere l’ultimo anno, analogamente a quanto previsto per l’anno di prova prima dell’approvazione della legge 107/2015.
Ma le incertezze maggiori riguardano il rapporto che da subito viene a crearsi tra il nuovo sistema e il fenomeno del precariato. Fermo nella decisione di chiudere per sempre e al più presto con l’esperienza del doppio canale, Il Ministero ha resistito fino in fondo alle richieste di riaprire le Graduatorie a Esaurimento (GaE) – e le vicende legate alle assunzioni di quest’anno dimostrano quanto ce ne sarebbe stato bisogno – e ha delineato una fase transitoria molto lunga e articolata, sulle cui possibilità di applicazione è lecito sollevare qualche dubbio. In essa, tra l’altro, non si può non notare la grande disparità nel trattamento previsto per gli abilitati, che potranno accedere a una graduatoria di merito regionale, previo espletamento di una prova orale non selettiva (ma che contribuisce per il 40% a definire il punteggio di ingresso), dalla quale verranno assegnati direttamente all’ultimo anno del percorso FIT, e in quello previsto per i non abilitati con almeno tre anni scolastici di servizio, per i quali, a partire dal 2018 e con cadenza biennale, sarà possibile partecipare a un concorso riservato che, solo se vinto, permetterà l’accesso ad un FIT ridotto a due anni (il primo e il terzo) e con qualche agevolazione. Il solito disprezzo per il lavoro e per l’esperienza maturata sul campo che si somma a quello che da anni ormai per lo Stato è un vero e proprio obiettivo strategico: cancellare definitivamente il diritto all’assunzione per i precari della scuola e con esso anche qualsiasi possibilità di rivendicarlo.
Quest’ultimo aspetto emerge particolarmente se si prova a guardare oltre la fase transitoria e a immaginare lo scenario delineato dal sistema una volta entrato a pieno regime, quando le GaE saranno esaurite e il concorso sarà l’unico canale di accesso al ruolo. Difficile pensare che il ricorso ai supplenti possa cessare e allora che cosa impedirà allo Stato di continuare a sfruttare a oltranza il lavoro dei precari se è vero che persino le graduatorie di terza fascia d’istituto, stando a quanto previsto dalla legge 107/2015, sono destinate nel tempo a scomparire? Che cosa potrà arrestare l’avanzata della forma più sommersa di precariato attualmente in voga, cioè il meccanismo della Messa a disposizione (MAD), una specie di chiamata diretta dei supplenti che non prevede graduatorie e nessun altro tipo di riconoscimento e trasparenza? La risposta in fondo è semplice anche se poco originale: la creazione di un’altra graduatoria in qualche modo simile a quella del doppio canale, valida cioè sia per l’assegnazione delle supplenze sia per l’accesso diretto quantomeno al FIT, se non al ruolo, una volta raggiunti i tre anni scolastici di servizio. Un doppio canale di accesso al FIT, per così dire.
A ben guardare, quindi, anche all’interno di questo nuovo sistema basato su presupposti condivisibili ma ricco di punti critici da eliminare o correggere al più presto, non sarebbe così difficile rispettare il diritto dei precari all’assunzione, se non fosse che da anni, purtroppo, l’intento del legislatore è quello di cancellarne persino il ricordo.
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