photo credits: Boris Thaser
Qual è il ruolo dell’istituzione scolastica di fronte al disagio della condizione giovanile e adolescenziale? Come può, la scuola, elaborare un’adeguata presa di consapevolezza delle nuove forme patologiche in adolescenza? Il mondo dei docenti può contribuire, insieme a chi è deputato al lavoro clinico, a sviluppare una consapevolezza e nuove strategie di cura di fronte al crescente disagio della condizione adolescenziale? Sono quesiti che vengono posti sempre più spesso e che non possono essere soddisfatti con risposte facili e semplici. Domande, tuttavia, che segnalano l’acuirsi di fenomeni di cui è difficile cogliere la portata e la cui risoluzione viene spesso e erroneamente demandata unicamente al mondo della scuola.
Il bisogno di riconoscimento sociale
L’adolescenza, rischio di dire una banalità, è per l’individuo un periodo di cambiamento evolutivo caratterizzato dalla necessità di abbandonare il contesto familiare protettivo e sicuro dell’infanzia per cominciare a essere protagonista di eventi i cui effetti siano riconosciuti dal mondo sociale. Non è un caso che ciò che gli adolescenti desiderano più di ogni altra cosa sia il riconoscimento sociale, in particolar modo quello che proviene dai loro pari. Le Breton direbbe che è il bisogno, per dare un significato alla propria vita e assumere un’identità, di sentirsi esistere agli occhi di quelli che contano per noi. Ma perché tutto questo si realizzi è necessario abbandonare il guscio protettivo della vita familiare e cominciare a intraprendere la propria strada immergendosi nel turbinoso e vorticoso ambiente circostante. Potremmo dire, ricordando Winnicott, che il fanciullo, con difficoltà, prova a uscire dal recinto familiare, le cui mura cominciano a vacillare e ad avere delle brecce, per svolgere i primi esperimenti nella vita sociale. Ma non è facile, occorre mettere in gioco le proprie capacità di adattamento misurandosi con un significativo numero di nuove esperienze. Il sistema motivazionale e emozionale dei ragazzi e delle ragazze è messo a dura prova. Da qui le tensioni, il malessere, il disagio.
Il problema è che su questo canovaccio esplicativo, che corre senz’altro il rischio di apparire superficiale, si innestano le trasformazioni epocali degli ultimi decenni. Il mondo dei nostri studenti è radicalmente cambiato, alcuni parlano di una vera e propria mutazione antropologica, nei confronti della quale può esserci la tentazione di riprodurre interventi che non tengano conto della possibile inadeguatezza dei paradigmi psicopatologici classici.
Il mondo degli adulti, per esempio, come pensa di affrontare il fatto del tutto inedito che i giovani, oggi, vivono una condizione frustrante nella quale vengono considerati dalla società più una minaccia che una risorsa nuova e necessaria, come invece è stato per millenni? Erroneamente si continua a discettare di conflitto generazionale tra padri e figli e con questa scusa si sono sdoganati per gli uni l’innalzamento dell’età pensionabile e il peggioramento delle condizioni lavorative, per gli altri la flessibilità in entrata nel mondo del lavoro e ogni possibile forma di precarizzazione dell’esistenza. Il punto è che tutto questo ha contribuito a destrutturare la rappresentazione del futuro agli occhi dei giovani che, se per un verso vengono incitati dal mondo a concretizzare progetti di realizzazione del sé attraverso la valorizzazione del proprio talento, per altro verso, troppo spesso, lungo questo decennio di drammatica crisi economica, gli stessi vedono costantemente infrante le aspirazioni verso il raggiungimento di un lavoro stabile, di gratificazioni professionali e di prestigio sociale. L’incapacità dell’immaginario dei giovani di elaborare il lutto per la morte del futuro li costringe a vivere in un eterno presente, rinunciando a progettare il cambiamento.
Il ruolo degli adulti
E ancora, come si interviene di fronte al cambiamento della funzione paterna e di quella materna? Da un lato, nella sua funzione normativa di custode autoritaria della legge, la figura del padre è oggi, come è noto, attraversata da una potente, e salutare, crisi di legittimità. Ciò nondimeno, nell’epoca dell’evaporazione del padre e del tramonto dell’Edipo, ci si chiede come può ancora essere possibile, di fronte all’annullamento di ogni senso del limite, un’efficace trasmissione del desiderio. Dall’altro lato, l’emancipazione del genere femminile, la rivendicazione della parità ma soprattutto il riconoscimento della differenza, chiama in causa l’esigenza delle giovani adolescenti di misurarsi con il passaggio dal corpo dell’infanzia a quello sessuato. Sono proprio le giovani, del resto, a investire, scrive Pietropolli Charmet, su un’ipersimbolizzazione del corpo al fine di riuscire a portare in superficie il segreto della femminilità, nascosta nelle cavità generative e accessibile solo grazie a uno sforzo di rappresentazione. Da qui le forme di malessere rappresentate dal corpo scarnificato dell’anoressica a quello maltrattato nell’autolesionismo.
E che dire, infine, di un altro fenomeno in costante crescita, quello del ritiro sociale che, partendo spesso da casi di fobia scolare si può tradurre in chiusure sempre più totalizzanti, facilitate, per di più, dall’uso inconsulto e pervasivo delle nuove tecnologie digitali.
Come si vede, i temi sono scottanti e necessiterebbero l’ausilio di una lettura interpretativa di tipo sistemico, in grado di cogliere in modo complesso tutte le sfaccettature del caso. Il che richiede, per forza di cose, modelli ermeneutici dell’adolescenza e dispositivi terapeutici innovativi. Il docente può essere un testimone avvantaggiato, considerato che il mondo scolastico rappresenta, quasi sempre, il mondo sociale dell’adolescente. A tale proposito, non c’è chi non sappia come la consapevolezza delle questioni adolescenziali, attinenti ai compiti evolutivi e alle criticità di questa condizione esistenziale, possa facilitare un atteggiamento di comprensione cautelativo rispetto ad eventuali derive patologiche. Sarebbe auspicabile, dunque, che si aprissero momenti di riflessione relativi alla modalità in cui il ruolo di docente può accostarsi a comprendere il mondo dell’adolescente.
Le scuole in sofferenza
Il problema è che, a mio avviso, la scuola italiana non è in grado di intercettare ed eventualmente affrontare il malessere dei giovani. L’istituzione scolastica pare inadeguata, non tanto per lo sforzo dei singoli, spesso encomiabile e meritorio, ma per il modello organizzativo a cui essa risponde e per l’effettiva mission alla quale essa soggiace. Perché essa non è uno spazio nel quale creare processi di soggettivazione delle individualità, ma un luogo nel quale si rimodellano le giovani menti in funzione delle istanze dell’economia (prestazione, competizione, performatività ecc.). La scuola, anche a seguito dei recenti sconquassi apportati dalla L. 107, rischia di diventare il laboratorio di un corto circuito dagli esiti nefasti per le menti dei nostri giovani. E questo per il fatto che essa chiede, ad un tempo, la costruzione di competenze e di forme di addestramento in funzione delle logiche del mercato e, almeno a parole, il rispetto del mandato costituzionale che la impegna, ancora oggi, ad essere punto di riferimento per la crescita e la maturazione dell’individuo, in modo tale da farne un cittadino libero e responsabile nei confronti della collettività. Se da un lato i recenti provvedimenti legislativi determinano una compressione dei tempi di studio e di elaborazione del sapere (per esempio il decreto ministeriale che prevede l’accorciamento a quattro anni del percorso liceale), dall’altro lato ogni buon docente sa che l’apprendimento richiede tempi lunghi per metabolizzare contenuti e accompagnare, lungo il tortuoso percorso di presa di consapevolezza di sé, il formarsi di soggetti dal pensiero critico e autonomo. E cosa dire del fatto che l’istituzione scolastica, nello stesso tempo, attraverso la somministrazione dei test e delle prove Invalsi incoraggia il becero nozionismo e esercita le giovani menti a diventare obbedienti ingranaggi del modo di produzione, mentre dall’altro lato è artefice dell’ingiunzione a diventare se stessi, a realizzare liberamente le proprie predisposizioni per risultare vincenti nell’interminabile competizione per il successo che accompagna la carriera scolastica dalla scuola primaria all’università, fino all’ingresso nel mondo del lavoro. Non è un caso se, effetto di questa drammatica contraddizione sistemica, molti adolescenti si abbandonano a una condizione di sospensione sociale e si isolano dal loro contesto. La società del narcisismo e dei vincenti contribuisce a generare mete irreali di bellezza, perfezione e successo. Ecco che allora il vissuto di fallimento e di vergogna per non essere riusciti nella fatica senza fine di realizzare se stessi risulta particolarmente doloroso. L’idea di potere farsi da sé e di essere se stessi amplifica la percezione del fallimento.
Credo che questa sorta di doppio vincolo, per citare Bateson, che questa condizione nella quale coesistono, all’interno del mondo della scuola, due direzioni incompatibili fra di loro, esista davvero e penso che spesso sia la causa ultima, anche se meno evidente, di quella condizione di spaesamento e disinvestimento emotivo che caratterizza le giovani generazioni. Al docente non resta che prendere atto dello stato delle cose, senza peraltro sottrarsi al compito di interrogare il proprio ruolo. Tuttavia, il suo punto di vista rimane fondamentale per monitorare disagi e individuare solitudini tra gli adolescenti. E questo perché il lavoro docente si colloca all’intersezione fra il suo essere educatore e amministratore di mansioni e doveri e il suo essere adulto di riferimento all’interno della sfera sociale dei giovani. Si diceva, più sopra, dell’assenza di futuro, che rischia di essere la prima causa di quella condizione di noia, disaffezione e muta resistenza anaffettiva che i giovani uomini e le giovani donne del nostro tempo riservano al contesto sociale che li attornia, dalla dimensione familiare e domestica a quella scolastica. Ricordo sommessamente che la noia, intesa qui per l’appunto come disinvestimento emotivo nei confronti del contesto degli uomini e delle donne che ci circondano, è nemica della gioia la quale, unica e sola, può determinare lo sviluppo di quegli elementi di creatività con i quali varchiamo la soglia della nostra solitaria individualità e esploriamo il mondo.
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