Idem con patate

La “regionalizzazione” è un logico compimento della Buona Scuola

Un errore che bisogna evitare quando si affronta il tema della “regionalizzazione”, e forse più ancora quando la si discute in riferimento alla devastazione radicale che provocherebbe nell’organizzazione della scuola pubblica, è quello di immaginarla come una riforma la cui esclusiva paternità deve essere attribuita al governo giallo-verde, e che dunque rappresenterebbe una rottura politica con l’approccio riformatore dei precedenti governi. La regionalizzazione, infatti, si ripromette, in tutti gli ambiti che intende avocare a sé, di esasperare la direzione politica in chiave neo liberista, condividendo la medesima ratio che ha guidato tutti gli esecutivi succedutisi dal governo Monti a oggi.

Non a caso, un progetto di regionalizzazione della scuola in Veneto era già stato pubblicato, con la Legge Regionale n° 8, nell’aprile 2017 (https://bur.regione.veneto.it/BurvServices/pubblica/DettaglioLegge.aspx?id=342616), mentre era in carica il governo guidato da Paolo Gentiloni, ben prima quindi di quel referendum regionale di cui oggi si fanno forti i governatori di Lombardia e Veneto. Il governo Gentiloni avrebbe dovuto coerentemente impugnare la Legge regionale presso la Corte Costituzionale; ma non lo fece. Come mai? La nostra ipotesi è che con quella Legge si anticipava, sul modello peraltro già in atto nelle province di Trento e Bolzano, un tipo di scuola che radicalizzava e portava a definitivo compimento le novità contenute nella L. 107, la cosiddetta “Buona Scuola”, in qualche modo facilitandone l’attuazione e riuscendo finalmente ad avere ragione della resistenza esercitata da buona parte della classe docente.

 

Fiaccare la resistenza alla L. 107

L’esecutivo guidato da Matteo Renzi, dopo la prova di forza costituita dall’approvazione della L. 107 con un voto di fiducia, che andava a sfidare lo sciopero del maggio 2015 cui aveva partecipato l’80 per cento della categoria degli insegnanti, inaugurava – anche con la complicità di alcune organizzazioni sindacali che pure avevano partecipato a quello sciopero – un’azione fortemente prevaricatrice nei confronti dei docenti, prevista non solo dalla Legge appena approvata, ma da tutti i successivi documenti programmatici ed attuativi pubblicati da lì in avanti dal MIUR; tale azione pervasiva ha in molti casi purtroppo fatto sì che tante assurdità pseudo-pedagogiche siano comunque entrate, senza adeguata riflessione critica, nel lessico utilizzato da molti colleghi. Nonostante ciò, l’azione di resistenza tesa a contrastare il palese attacco alla libertà d’insegnamento ha impedito che la scuola assumesse, in buona parte del territorio nazionale, quella fisionomia tecnocratica ispirata ai dogmi dell’economia neo-liberista, e volutamente finalizzata a impedire un’autentica emancipazione critica ed intellettuale degli studenti.

Lasciare mano libera alla Regione Veneto, anche quando legiferava in palese contrasto con le direttive nazionali, era il miglior modo per fiaccare quella resistenza. E del resto stava lì a dimostrare l’efficacia di questa strategia la distopica esperienza del Trentino Alto-Adige, dove la servitù dei docenti, costretti a collaborare a un progetto didattico imposto dai rappresentanti politici in collaborazione con i poteri economici, sottoposti a un aumento indiscriminato d’orario e una flessibilità non certo equilibrati dai tanto sbandierati vantaggi economici, era un dato di fatto ormai acquisito.

 

Assoggettare la scuola al potere politico regionale

Non deve allora essere sottovalutata questa continuità tra lo spirito neo liberista delle politiche dei governi centrali e la sostanza delle innovazioni che intenderebbero introdurre i nuovi poteri regionali. In particolare, nella scuola, ciò emerge con particolare evidenza. E, probabilmente, se il progetto di regionalizzazione fosse solo un provvedimento identitario della maggioranza “sovranista”, esso avrebbe ben poche possibilità di riuscire a imporsi. Il sostegno sostanziale del Partito Democratico all’intera operazione, con il ruolo decisivo che sta giocando in questo senso la Regione Emilia Romagna, consente di individuare l’autentica ragione politica alla base di questo processo. Ad ogni modo, se la regionalizzazione della scuola dovesse concretamente realizzarsi, coloro che hanno sostenuto la “Buona Scuola” troverebbero accolti tutti i presupposti da loro più volte rivendicati.

Dal punto di vista dell’interesse non solo degli insegnanti, quanto della tenuta democratica dell’intero Paese, la conseguenza probabilmente più radicale sarebbe la completa dipendenza dei docenti dal potere politico regionale, con la fine di fatto della “libertà d’insegnamento”. Tutti i contenuti principali previsti nella scuola regionalizzata mirano a questo scopo: l’imposizione dall’alto (da parte delle rispettive Giunte provinciali) dei contenuti e delle metodologie didattiche; l’assunzione diretta dei docenti da parte dei Dirigenti scolastici, il cui operato risulterebbe fortemente soggetto alla pressione sempre delle Giunte provinciali; il controllo sulla attività di formazione, cui dovrebbe sottoporsi obbligatoriamente la categoria, e i cui contenuti, corrispondenti alle metodologie didattiche sopra richiamate (ovvero la “didattica per competenze”), sarebbero sempre decisi da organismi di nomina politica in cui i lavoratori della scuola giocherebbero un ruolo marginale.

 

Assoggettare la scuola agli interessi padronali

In questo modo – secondo i promotori della riforma – si stabilirebbe una relazione feconda con le realtà del territorio (guarda caso, soprattutto quelle imprenditoriali), subordinando le ragioni d’essere della scuola – che dovrebbero riguardare l’emancipazione intellettuale, ovvero critico-politica del cittadino secondo le finalità previste dalla Costituzione – a imperativi di natura economica, intesi secondo una logica palesemente classista. Realtà imprenditoriali che hanno tutto l’interesse a formare una mano d’opera a basso costo e scarsamente scolarizzata, attraverso una potente azione sui processi di soggettivazione, tesi proprio a costituire figure naturalmente servili, incapaci di comprendere le ragioni sistemiche dello sfruttamento cui sono soggette, e pronte a mettere in pratica tutte le direttive di risoluzione dei problemi che a loro vengono comandate; e che attribuiranno l’eventuale loro fallimento non a un sistema ingiusto di divisione (anche intellettuale) del lavoro, ma ad una loro inadeguatezza personale, non capace di conformarsi entro un orizzonte formativo in cui la competitività assoluta e continua viene considerata un valore. Sarebbe la fine, come si nota, della libertà d’insegnamento. Un’idea già immaginata ai tempi del berlinguerismo, ovvero “limitare” la libertà didattica all’interno di organi collegiali sempre più depotenziati quanto alla loro dialettica democratica, di cui faranno parte individualità esterne alla scuola, ma dotate di grande capacità di pressione, con Dirigenti sempre più invitati, attraverso le più disparate forme di mobbing, a uniformare il comportamento dei propri insegnanti. La forma di pressione più efficace per i DS sarebbe comunque la “chiamata diretta”, dove il criterio di scelta (al di là dell’ipocrita dizione di “chiamata per competenze”) si giocherebbe sulla disponibilità del docente a uniformarsi ai principi didattico-formativi imposti dall’alto.

Diventa superfluo, a questo punto, far notare quanto sia destinato a realizzarsi in modo ben più efficace rispetto a quanto già previsto dalla precedenti politiche riformatrici – e non certo come effetto involontario di tale allucinante sistema – un deciso orientamento revisionista sul piano dei contenuti, di quelli storici in particolare, per impedire scientemente la formazione di alcuna coscienza critica. Non bisogna sopravvalutare sul piano contenutistico l’accenno folcloristico a lezioni di storia locale, magari attraverso il “dialetto”; persino i grandi industriali del Nord sono perfettamente coscienti che ai loro figli tali approfondimenti contenutistici servirebbero a ben poco. Il proposito vero di quest’idea, così come del resto quella di sacrificare i contenuti del sapere disciplinare attraverso la metodologia CLIL, è quella di poter scegliere, grazie a una selezione dovuta alla competenza linguistica e non disciplinare, gli insegnanti più disponibili a comunicare contenuti neutri, secondo le direttive ricevute, vanificando l’obiettivo critico delle discipline.

 

Lotta di lungo periodo

La battaglia per impedire la regionalizzazione si pone dunque in continuità con le altre che abbiamo condotto in questi decenni contro lo spirito riformatore che, da Berlinguer in avanti, ha investito la scuola pubblica. Questo aspetto va ben tenuto presente per mettere in guardia i colleghi, affinché diffidino della strumentale opposizione che proverrà dagli esponenti PD e da parte della dirigenza dell’FLC-CGIL, che affermeranno di voler ostacolare questo processo, per meglio però imporne – magari sul piano nazionale – i contenuti più retrivi. Per cui il rischio è quello di ottenere lo stralcio dell’ambito scolastico dal processo di regionalizzazione (difficile, perché il controllo della scuola è strategico per l’imporsi dello spirito neo-liberale; né sarebbe auspicabile accettare che la regionalizzazione vada comunque a imporsi per altri ambiti, pure strategici per la tenuta democratica) per poi accettare che, sul piano nazionale, vengano imposti i medesimi contenuti. La lotta contro la regionalizzazione, al di là del suo valore strategico in questa delicata e forse decisiva fase storico-politica, deve fare riferimento a una battaglia politica e culturale di più lungo periodo, per contrastare la volontà del neo-liberismo di assumere il controllo di qualsiasi ente produttore di cultura; nella consapevolezza che la frantumazione territoriale serva proprio per imporne al meglio i principi, smascherando la falsa opposizione di chi a parole vuole impedire questa deriva istituzionale, ma non il progetto di umiliare in via definitiva la professionalità docente.

* Giovanni Carosotti è componente del gruppo Appello per la Scuola Pubblica,

https://sites.google.com/site/appelloperlascuolapubblica/)