photo credits: Steve Mann
Nel dibattito sull’integrazione scolastica sul profilo e la funzione sociale dei docenti che si occupano di didattica speciale vi è una sostanziale “discordanza semantica”. Basti ricordare al proposito la definizione di docente «bis-abile» di Ianes o quella di «figura di sistema arricchita» emersa nella mozione finale dell’ultimo convegno internazionale sulla Qualità dell’integrazione[1]. Proprio in questi mesi, inoltre, in occasione dell’attuazione delle deleghe della l. n. 107, si torna a rimarcare la presunta necessità di specializzare ulteriormente i docenti di sostegno. La disputa linguistica – che ovviamente è anche disputa d’indirizzo valoriale e quindi disputa politica – è interessante soprattutto perché manifesta che studiosi, esperti, tecnici ministeriali e insegnanti oggi si contendono un potere di nominazione che ciascuno sente insufficiente e non riconosciuto.
In questo contesto, la “specializzazione” dell’insegnante di sostegno vorrebbe essere un tentativo di riqualificazione della figura. D’altronde storicamente è già successo che i docenti italiani per superare una crisi di ruolo abbiamo cercato rifugio in un camice bianco, in un sapere neutro e oggettivo, in un bagaglio di dotazioni tecniche. Uno di questi equivoci si chiamò strutturalismo e riguardava gli studi letterari. Sul piano teorico lo strutturalismo si impose tra gli anni 1960- 1975, mentre nelle scuole si affermò negli anni Ottanta. Il metodo strutturalista presumeva la centralità del testo analizzato “scientificamente” attraverso l’impiego di categorie narratologiche. Le questioni relative al significato e ai valori venivano tralasciate o guardate con diffidenza da parte di chi considerava l’insegnante come un tecnico che doveva fornire agli studenti competenze neutrali ed oggettive. Era questo anche un modo di reagire alle posture crociane e allo spontaneismo didattico di certi docenti. Non mancavano dunque i motivi di disagio, ma la risposta fu nel complesso regressiva: i docenti di lettere rinunciarono a fornire interpretazioni dei testi e, per loro tramite, del mondo. Lo strutturalismo voleva essere un rimedio ed invece fu un acceleratore della loro crisi di mandato. Un processo simile, di smarrimento di una funzione intellettuale complessiva e di ricorso a forme surrogate di rispettabilità attraverso l’addestramento tecnico, riguarda ora i docenti di sostegno. Naturalmente questo processo di delegittimazione, di parcellizzazione del mandato, di tecnicizzazione dei saperi investe tutti i docenti, ma i docenti di sostegno sono ancora più esposti degli altri insegnanti a fenomeni di declassamento, perché privi di un mandato più ampio quale quello della mediazione di un oggetto disciplinare, perché espropriati di un “potere” valutativo individuale, perché costretti a continue negoziazioni, spesso unilaterali, coi colleghi co-docenti, ed in ultimo perché considerati limitrofi agli svantaggiati e ai più deboli.
eppure la soluzione spesso risiede nel problema stesso. Il meticciato, la negoziazione relazionale permanente, l’attività di mediazione tra saperi diversi, il giocare di contrabbando tra le frontiere, sono tratti propri del carattere identitario dei nuovi intellettuali[2]. Questi nuovi soggetti sociali sono vicini alla contraddizioni della nostra scuola più di qualsiasi altro agente e sono in grado di attivare interessanti cortocircuiti critici. «Dominati delle classi dominanti», li definirebbe Bourdieu[3], «intellettuali liminari»[4], li chiama Said. In concreto sono i musicisti che insegnano alle scuole medie, sono i dottori di ricerca che tirano avanti con qualche supplenza, sono i filosofi che fanno potenziamento al professionale, sono gli insegnanti-scrittori-blogger, sono i docenti di sostegno che per lavorare devono fare le valigie e trasferirsi. Queste persone, poste a contatto con chi ha ancora meno di loro: lo studente immigrato, il ragazzo disabile, l’alunna in dispersione, lo studente violento – proprio perché interni loro stessi a forme di marginalità e di contraddizione esistenziale – non si affidano a verità già rivelate, di fronte ai problemi si interrogano. Contaminano di domande quello che toccano. Sono ricercatori riflessivi che istituiscono nella pratica didattica «un delicato equilibrio tra istruzione, cioè tra acquisizione di saperi e conoscenze, ed educazione, cioè l’accessibilità a questi saperi e conoscenze tramite modalità relazionali[5]». Se il loro sguardo fosse paragonabile a quello di un dispositivo ottico potremmo dire che è quello mobile e di rapida messa a fuoco di una goPro: non fanno per loro teleobiettivi e cavalletti.
Naturalmente l’insegnate che si occupa di integrazione è anche un “esperto” di un sapere pratico che implica la conoscenza di tecniche e metodologie didattiche, ma l’insegnante inclusivo è ben più di un tecnico, di un somministratore di protocolli operativi, di uno specialista di patologie: è un intellettuale in azione, per cui la distinzione tra docente curricolare e di sostegno è persino divenuta ridondante. E come potrebbe non esserlo, d’altronde, se il suo habitus è quello di saltare gli steccati?[6]
Tuttavia il mio discorso non è meno arbitrario di quello a cui mi sono opposta inizialmente. Ho semplicemente sostituito a un dover essere: “l’insegnante di sostegno come insegnante specializzato”, un altro dover essere: “l’insegnante inclusivo come intellettuale in azione”. Le argomentazioni che seguono servono dunque ad attenuare, non ad eliminare, dato ciò è impossibile in qualsiasi scelta valoriale, la normatività discorsiva in cui sono incappata.
I motivi per cui l’insegnante inclusivo dovrebbe resistere alle spinte iperspecializzanti del suo lavoro a mio avviso sono di tre ordini: uno pratico, uno teorico, uno etico.
1) Obiezione pratica. L’iperspecializzazione non aiuta il docente nel lavoro didattico, al contrario rischia di renderlo inadeguato alla pluralità della vita di classe. In nessuna classe si trova infatti il caso da manuale da gestire. Non c’è casistica che tenga nelle dinamiche plurali, cangianti, variabili delle persone. A maggior ragione se questa presunta casistica viene fatta esplodere in un ambiente per sua natura dinamico come quello della classe. La classe non è un laboratorio, è un caleidoscopio. Le metodiche minute sono inservibili quando sono sopravanzate dalle eccezioni.
2) Obiezione teorica. L’iperspecializzazione contrasta l’integrazione delle esperienze che ci rendono competenti nella vita. L’iperspecializzazione ci rende efficienti soltanto nell’applicazione di una tecnica. Un docente che si muove con padronanza nel suo ambito disciplinare, che ha competenze didattiche e di didattica-speciale, che è capace e attento nella cura relazionale, con interessi culturali ampi, letture pedagogiche alla spalle, ha molte più chiavi di lettura e soluzioni possibili a disposizione nei vari contesti in cui si trova ad operare di qualsiasi altro esperto. Del resto se il modello di educazione verso cui tendiamo è quello multidimensionale e multiculturale delle società complesse, cosa ce ne facciamo di alimentare «saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline da una parte, e realtà e problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali, planetari dall’altra? […] L’iperspecializzazione impedisce di vedere il globale (che frammenta in particelle) così come l’essenziale (che dissolve)». Così per Edgar Morin[7].
3) Obiezione etica. L’iperspecializzazione è disumanizzante sia per gli insegnanti che la praticano che per gli studenti che la subiscono. L’attitudine a contestualizzare e a integrare è una qualità fondamentale della mente umana. L’essere umano diviene meno umano se questa qualità viene atrofizzata. Ci sono catene di montaggio visibili e invisibili. eseguire un compito circoscritto può forse attenuare sensi d’ansia e di insicurezza; sapere esattamente cosa fare in una data eventualità (anche se poi questa non si verificherà) può illudere il nostro il senso di inadeguatezza e incantare il nostro senso di inutilità. Ma non credo sia questa la sfida che dovremmo ingaggiare come insegnanti. Morin constata che «c’è un deficit democratico crescente dovuto all’appropriazione da parte degli esperti, degli specialisti, dei tecnici, di un numero crescente di problemi vitali[8]». Se accettiamo di avere una qualche responsabilità educativa rispetto ai nostri «problemi vitali», allora, non è il momento di ripiegarci su noi
stessi, di assumere pose difensive, di indossare mascherine igienizzanti nel contatto con gli studenti.
Per rilanciare la sfida educativa serve a tutti noi un supplemento di studio e di preparazione, una cultura più ampia e più complessa, un sapere problematico e sfaccettato accompagnato da una nuova e chiara intenzionalità politica: essere umani capaci di umanizzare altri esseri umani.
[1] http://www.convegni.erickson.it/qualitaintegrazione2015/mozione/
[2] Cfr. R. Luperini, L’esule, lo sradicato e il precario della conoscenza. Storia e futuro degli intellettuali, in http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/214-l-esule,-lo-sradicato-e-il-precario-della-conoscenza-storia-e-futuro-degli-intellettuali.html
[3] Cfr. P. Bourdieu, Campo del potere e campo intellettuale, manifestolibri, Roma 2002
[4] E. W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1995
[5] A. Goussot, E. Annaloro, Risorse per l’inclusione. L’inclusione come risorsa, Palumbo editore, Palermo 2015, p. IX
[6] Se la nostra scuola fosse pensata in termini culturali e non economicistici, l’attraversamento degli steccati dovrebbe essere favorito, prevedendo, ad esempio, l’istituzione di cattedre miste, con alcune ore curricolari ed altre di sostegno.
[7] E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina editore, Milano 2000, pp. 5-6; 7.
[8] Ivi, p. 11.
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