È dei primi di febbraio l’appello-denuncia che circa 600 professori universitari hanno rivolto al Governo e al Parlamento per frenare quello che, apparentemente, sembrerebbe l’inarrestabile scadimento della preparazione degli studenti e delle studentesse italiani/e relativamente alla conoscenza della grammatica, del lessico e della sintassi della lingua italiana. Si tratta dell’ennesima ciliegina sulla torta, a certificare il fallimento della cattiva scuola di Renzi, dato che questi processi anziché frenarli li accelera e li asseconda. Del resto, il fallimento oramai è sotto gli occhi di tutti: a più di un anno di distanza dall’entrata in vigore della L. 107/15, i cambiamenti prodottisi hanno contribuito a ingenerare, presso il corpo docente, un disorientamento e un disagio crescenti, legati all’istituzione di pratiche extra didattiche (l’alternanza scuola-lavoro) e di forme organizzative dei lavoratori (l’organico dell’autonomia e i docenti destinati al potenziamento) che non hanno favorito la costruzione di un ambiente scolastico nel quale lavorare serenamente e proficuamente. Tutto questo, in un contesto sociale nel quale la percezione culturale presso vasti settori dell’opinione pubblica, relativamente al ruolo formativo della scuola, come momento indispensabile, attraverso la fatica dello studio, per la costruzione di un avvenire personale e sociale gratificante e dotato di senso, ha raggiunto i minimi storici.
Ecco perché, di fronte agli imperativi dell’amministrazione scolastica ministeriale che hanno ridefinito il profilo identitario della scuola e determinato le cornici di riferimento generali nelle quali viene calato il lavoro quotidiano dell’insegnamento, la tentazione è quella di assumere, in questo momento, la posizione di chi subisce passivamente indirizzi, procedure e orientamenti che sono indiscutibilmente gestiti dal vertice del sistema. La tentazione sembra essere, dunque, quella di tirare i remi in barca e pensare a sopravvivere nella giungla dei progetti di alternanza scuola-lavoro, delle attività di potenziamento, dei corsi di recupero, eccetera, eccetera. Tuttavia occorre reagire perché, nonostante tutto, è possibile, doveroso e urgente ritagliarsi degli spazi, per così dire interstiziali, di iniziativa, attraverso i quali arrestare la deriva di senso che si sta impossessando della scuola pubblica per provare a invertirne la tendenza.
A patto che si sia consapevoli che condizione di possibilità per costruire momenti di opposizione concreta alla deriva aziendalistica della scuola pubblica italiana può essere solo quella di innescare percorsi di condivisione e collaborazione fra docenti che frenino l’inclinazione, sempre meno strisciante e sempre più palese, alla competizione e alla rivalità fra colleghi. A fronte della preoccupazione per l’incremento di una generalizzata condizione di precarietà, per l’accresciuta mole dei carichi di lavoro e per la mortificazione del ruolo docente come figura in grado di costruire e trasmettere saperi, e non solo come intrattenitore, imbonitore e accompagnatore alle più svariate attività che si sono impossessate dei luoghi e dei ritmi dell’apprendimento, bisogna mantenere una certa lucidità e provare a sperimentare pratiche e obiettivi dotati di senso. Occorre fare uno sforzo di immaginazione per capovolgere l’insensatezza tecnocratica e parcellizzante della controriforma renziana (la quale però è funzionale a obiettivi eterodiretti ben determinati), in momenti che, reinvestiti di un senso antagonistico a quello reificante e mercificante veicolato dalla L. 107, possano mettere a valore lo specifico professionale e le competenze disciplinari di tante colleghe e tanti colleghi, portatrici e portatori di vissuti esperienziali a volte decennali, di bagagli culturali inestimabili, di competenze indiscutibili.
Nonostante la presa d’atto incontrovertibile che l’organizzazione di tempi e spazi della trasmissione e dell’apprendimento dei saperi scolastici è ancor più soffocante e asfissiante, la scuola rimane un campo di forze sempre mobile e in continuo divenire, all’interno del quale si misurano e si confrontano tendenze opposte e contraddittorie. Da questo punto di vista nulla è mai scontato. I luoghi del contendere possono essere innumerevoli, essi in primo luogo hanno a che fare con la necessità di risemantizzare continuamente elementi del vissuto scolastico che non sono neutri ma che di volta in volta, a seconda del punto di osservazione che si utilizza, possono assumere significati differenti.
In un contributo di alcuni mesi fa su La Stampa (12.09.2016) Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, nel riconoscere la quantità di problemi sul tappeto, suggeriva di sfruttare quei margini di manovra che la scuola ancora “ci concede”. Facciamo nostro questo invito e proviamo a rivoltarlo di senso e a declinarlo su obiettivi che, individuati in maniera non esaustiva, possano permettere ai docenti e agli operatori della scuola italiana di focalizzare la propria attenzione su alcuni elementi di criticità e, a partire dai quali, costruire consapevolezza critica nei confronti dei meccanismi perversi della legge 107. Ovviamente per ribaltarli e rovesciarli, non certo per avvalorare possibili strategie migliorative di un impianto inemendabile e irriformabile.
Si pensi allora, per esempio, al primo tema tra i tanti che ci si presentano innanzi, al mantra ossessionante con cui si è veicolato il dispositivo dell’alternanza scuola-lavoro come strumento attraverso il quale aprire l’istituzione scolastica al territorio e favorire negli studenti un sapere pratico direttamente spendibile nel mondo del lavoro. Senza voler scendere nel dettaglio, e ce ne sarebbe da dire visto che le ore curriculari sottratte non consentono di svolgere più un dignitoso lavoro per un proficuo apprendimento disciplinare, forse può essere il caso di aprire, scuola per scuola, istituto per istituto, un grande dibattito per riconfigurare la questione del rapporto scuola-territorio. Cosa vuol dire che la scuola deve aprirsi al territorio? Vuol dire che essa deve legarsi mani e piedi alla logica dell’impresa in funzione dell’accumulazione del profitto, magari reclutando negli istituti scolastici stagisti e lavoratori a basso costo? Qui si tratta di aprire molecolarmente nelle scuole occasioni di riflessione per mettere in discussione questa banalità tanto vuota quanto pericolosa. D’altra parte, la necessità di focalizzare l’attenzione sul rapporto con il territorio, e dunque con il contesto socio-economico circostante, nasce dalla consapevolezza che, in qualsiasi scuola, ai problemi di carattere educativo si affiancano sempre problemi di natura più complessa che trascendono il piano esclusivo della didattica. La composizione sociale dei territori, caratterizzata dalla crescente presenza di differenti componenti sociali, economiche, etniche, di genere, che arricchiscono le città con la loro presenza, costringe comunque la scuola a andare verso il territorio. Questa esigenza, va però chiarito, non deve derivare da scopi meramente economici ma deve essere piegata all’obiettivo di costruire reti per implementare logiche di accoglienza, inclusione e, attraverso il successo del percorso scolastico, sistemi di promozione sociale e di integrazione nella direzione di un espletamento effettivo dei diritti alla cittadinanza attiva e concreta. Solo in seno ad un contesto in grado di promuovere le condizioni di possibilità di un protagonismo attivo, possono svilupparsi anche doveri, capacità critiche e responsabilità in grado di fornire gli antidoti adeguati per combattere e sconfiggere devianze, dal punto di vista del vivere comunitario, criminali e antisociali. Non è facile, ma è tempo di provare a piegare l’indirizzo renziano che svilisce la scuola asservendola alle logiche lavoriste e produttiviste dell’economico, a un’azione operativa capace di congegnare reti di inclusione e accoglienza, per costruire un’effettiva cittadinanza di tutti e tutte. Sarebbe il caso, allora, di opporre all’alternanza scuola-lavoro proposte in grado di volgersi all’elaborazione, nei territori, di una relazione, costante e plurale, tra soggetti diversi come lievito che possa favorire processi di apprendimento e di costruzione di capacità critica degli studenti e, al contempo, di riconoscimento sociale della scuola.
Altri discorsi e ragionamenti potrebbero seguire, relativamente, per esempio, ai temi di una didattica paritaria, orizzontale e non gerarchica o ancora a quelli dell’utilizzo delle risorse informatiche e, in particolar modo, di Internet, visto che troppo spesso, all’interno dell’istituzione scolastica, vige una sorta di acritico entusiasmo per tutto ciò che riguarda le tecnologie digitali. E si potrebbero, si dovranno, agitare conflitti relativamente a quegli effetti paradossali in base ai quali si accresce l’attitudine all’individualismo narcisistico di studenti e studentesse a fronte di un tendenziale impoverimento della loro coscienza critica e del loro senso critico. Da qui un accresciuto disagio adolescenziale le cui manifestazioni sono spesso ingannevoli e enigmatiche.
Il fatto è che la posta in gioco, a scuola, rimane, nonostante tutto, troppo alta per lasciarla ai burocrati, ai tecnocrati e agli arrivisti di ogni risma. È vero, nell’ambito della scuola-azienda lo spettro di intervento che coniughi mandato scolastico e mandato sociale si restringe sempre di più. E tuttavia, non ci sono altre strade se non quella, lunga e faticosa, dell’assunzione di uno sguardo critico e un approccio consapevole che faccia della lotta per la restante salvaguardia della libertà di insegnamento, della battaglia per la serietà nella divulgazione dei saperi, della dialettica per l’assunzione di un approccio critico e costruttivo a un tempo, la cifra del nostro impegno per una scuola pubblica, libera e democratica.
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