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Premesso che affronteremo la decolonizzazione del marxismo e dell’antirazzismo nella seconda parte dell’intervista, cominciamo da come decolonizzare la scuola e la didattica.
Il tema della decolonizzazione della didattica si può affrontare in due modi. Il primo riguarda la forma attraverso cui si fa la didattica, che comunque, nelle sue forme tradizionali, si rifà sempre a una sorta di colonialità di quella che può essere vista come l’azione pedagogica, usando un bel termine di Pierre Bordieu, la tecnica stessa su cui si fonda la didattica, la trasmissione del sapere. Un secondo modo, che è il più facile, anche se è legato al primo, riguarda i contenuti, che hanno a che vedere sul come una certa narrazione o autorappresentazione nazionale trasmette sé stessa attraverso le diverse pratiche dell’insegnamento.
Ora, per cercare di cominciare a decolonizzare la narrazione tradizionale dominante, che trasmette la scuola, sulla storia della società italiana, dell’Italia come stato-nazione, bisognerebbe cominciare da quelle che sono le due materie che in qualche modo custodiscono la trasmissione dell’identità nazionale: una è la letteratura, la lingua italiana e l’altra è la storia, ovviamente connessa con la geografia e con le altre discipline umanistiche. La stessa architettura umanistica del sapere, specie in Italia, contrariamente a quanto si possa pensare, si fonda e trasmette una certa colonialità della cultura, nel senso che il suo referente implicito è una determinata concezione europea dell’uomo e della storia. Perciò la prima cosa da fare è qualcosa che di solito in Italia non si fa: ricollocare la storia moderna dell’Italia nel contesto della modernità globale, che aveva al suo centro il colonialismo come motore propulsivo. Il colonialismo, la schiavitù, l’imperialismo sono delle strutture attraverso cui la modernità si è espressa. Stanno dentro la storia europea, e come episodi centrali, non certo marginali.
Lo stesso fascismo, come ha messo in rilievo da sempre il pensiero nero radicale, proprio in quanto razionalità razziale di governo, non è pensabile senza il colonialismo, la schiavitù e il razzismo coloniale. Ora la storia dell’Italia, così come viene trasmessa sia dalla letteratura sia dai manuali di storia e di storia della lingua e della letteratura, non viene mai collocata in un contesto globale, semmai viene collocata in un contesto europeo, ma non viene mai delocalizzata o globalizzata, mentre questa è una cosa molto importante, perché se non viene fatta questa operazione, si rischia di riprodurre una sorta di “eccezionalismo” della storia nazionale, per quanto riguarda la questione coloniale-razziale e sugli effetti, rispetto a quello di altri Paesi, come per esempio, Gran Bretagna, Francia e USA.
La modernità non è solo questo, ma è impensabile senza i dispositivi di potere emersi con l’espansione coloniale, la schiavitù e l’imperialismo, ed è questa una delle cose più importanti che gli studi postcoloniali hanno messo in luce completando una visione che in qualche modo il marxismo aveva già posto in rilievo. Sono poi fenomeni connessi, in modo lineare, molti dei conflitti e delle lotte che attraversano oggi i nostri contesti, soprattutto per quanto riguarda il governo delle migrazioni. Se non si colloca l’Italia dentro quella storia, non si capisce che legame possa avere con il passato coloniale, con la schiavitù, con il colonialismo e con l’imperialismo moderno, e non si fa che riprodurre l’idea di una certa “innocenza” nazionale, e del resto tutta “bianca”, rispetto a tali questioni. Quindi l’operazione che bisogna fare è cominciare a delocalizzare la storia dell’Italia, dal momento della sua costruzione moderna, a partire dall’unificazione: qual è il contesto europeo entro cui si inserisce (e qui alcuni testi di Del Boca, come per esempio Italiani brava gente o l’Africa nella coscienza degli italiani, possono essere messi utilmente al lavoro), quali erano i dispositivi che aveva al centro in quel momento lo sviluppo capitalistico. E chiaramente razza e razzismo sono sempre stati dei dispositivi strutturali all’interno del modo di produzione capitalistico. E se diciamo strutturali, significa che sono anche dispositivi simbolici, che operano nella cultura e quindi anche nella produzione della conoscenza e del sapere.
Ebbene, se accettiamo questo ragionamento, è chiaro che tutto questo in qualche modo deve essersi riversato nella storia dell’Italia e a sua volta le élite italiane avranno avuto a che fare con tutti questi sviluppi “razziali”, per così dire, che si stavano dando in Europa e nel mondo. Il primo passo è quello di collocare l’Italia nel contesto della storia della modernità occidentale e capitalistica, che ha avuto come genesi e centro propulsore il capitalismo coloniale, e vedere, da una parte, in che modo l’Italia ha contribuito culturalmente, come tutti i paesi europei, alla produzione della narrazione coloniale europea della razza e della supremazia bianca.
Molto spesso, per esempio, si dice “l’Italia culla del rinascimento, culla di tante cose…”, ecco tutte quelle culle, o meglio un certo tipo di immaginazione culturale e politica che le ha definite come culle, hanno contribuito in qualche modo a plasmare una certa grande-narrazione coloniale dell’Europa che è servita come uso qui un vecchio e improprio termine marxista – sovrastruttura dell’espansione del dominio materiale coloniale europeo. Dall’altra, bisogna ragionare sul modo in cui il mondo coloniale si è riversato sulla costruzione e sull’unificazione dell’Italia moderna, “striandone”, e quindi “gerarchizzandone”, i suoi spazi interni. Di questo c’è anche qualche traccia già per esempio in Gramsci, però molto c’è ancora da fare.
Negli ultimi anni, soprattutto negli ultimi dieci, sulla scia degli effetti degli sviluppi degli studi decoloniali o postcoloniali, anche in Italia abbiamo avuto molti lavori e ricerche sul colonialismo italiano, sulle diaspore coloniali dalle colonie italiane in Italia, sul rapporto tra fascismo, colonialismo e razzismo, che prima erano appannaggio di un gruppo di studiosi piuttosto ridotto: Del Boca, Rochat, Labanca, Procacci e qualcun altro.
Oggi non si può più affermare che c’è un rimosso del colonialismo, gli studi e le ricerche crescono in continuazione, la cosa che manca però è cercare di produrre una contro-narrazione della storia nazionale a partire da una prospettiva postcoloniale o decoloniale. Detto in altre parole, occorre portare il lavoro fatto dalla storiografia tradizionale verso altri orizzonti, verso un altro “piano di immanenza”, per dirla con Deleuze e Guattari. Grazie allo sviluppo degli studi postcoloniali e decoloniali, oggi abbiamo una concezione diversa e più complessa del colonialismo come evento storico, che non è più quella della storiografia classica, possiamo quindi operare in un “piano di immanenza” assai differente, e quindi rileggere il passato da un’ottica molto più vicina alle lotte e ai conflitti che il razzismo produce nel presente. Il “piano di immanenza” aperto dagli studi postcoloniali, poiché assai intrecciato con l’archivio dei black studies e con la tradizione del pensiero radicale nero, ci porterebbe anche a riconsiderare lo sguardo sul fascismo stesso, a pensarlo più come una pulsione razziale, interna e costante, della modernità capitalistica occidentale e dei suoi apparati culturali, che non (soltanto) come un determinato regime storico e politico.
La guerra al brigantaggio, della seconda metà dell’Ottocento in Italia, che produce più morti di tutto il Risorgimento, è di fatto una guerra civile contro la popolazione meridionale, con pratiche coloniali (stragi di civili a Casalduni e Pontelandolfo). Quindi prima del colonialismo esterno verso l’Eritrea, la Libia, c’’è un colonialismo interno – ne parla Del Boca e prima ancora Gramsci – che ci ricorda che la linea del colore, la razzializzazione sono stati dispositivi usati all’interno.
Si certo, è davvero singolare che gli scritti di Gramsci su razza, razzismo e colonialismo non siano stati approfonditi in Italia, da un’ottica più o meno postcoloniale. Lo si cita, come per quanto riguarda il colonialismo interno, ma poi tutto resta li. È chiaro che anche nell’ottica di Gramsci colonialismo interno ed esterno rispondono più o meno alla stessa logica. Gramsci poi è molto utile per capire come avviene la costruzione del meridionale secondo tipologie razziali, come negroide, africano, e simili. Per quanto riguarda Del Boca, la sua analisi sulla guerra al brigantaggio – che tu hai chiamato una guerra civile come premessa della futura espansione coloniale italiana è tra gli studi meno citati, quando si parla di questi argomenti. Del Boca parla di guerra coloniale vera e propria, svolta dall’Italia del Nord per annettere il Sud. Il problema è che spesso non si scende in profondità sul significato della stessa espressione “guerra coloniale”. E devo dire che, per quanto mi riguarda, nemmeno Del Boca poi compie fino in fondo questo passo, nei suoi testi, per esempio, non si parla quasi mai di razzismo e quasi mai il razzismo viene assunto nella sua dimensione di dispositivo centrale della storia moderna, europea e globale. D’altronde, come abbiamo detto, la sua storiografia operava dentro un “piano di immanenza” diverso.
Oggi siamo in grado di ragionare diversamente su tutto questo grazie alla profondità che hanno dato al colonialismo come modo di produzione globale e come formazione discorsiva moderna le prospettive postcoloniali. Uno studioso come Labanca, nel suo libro Oltremare, ha cercato di portare il lavoro di Del Boca verso una prospettiva diversa, allungandone l’orizzonte, ma anche qui non si finisce di rompere con una visione più o meno tradizionale del colonialismo, che lo vede più che altro come un sistema storico, economico, politico e culturale, più che come una formazione discorsiva centrale alla stessa idea di modernità occidentale.
Sinteticamente, il mio modo di vedere le cose è questo: nel momento dell’unificazione le élite culturali e politiche italiane erano dentro il modo coloniale globale di pensare alla gestione del territorio, della nazione, della produttività del capitalismo e, di quello che si può chiamare in termini coloniali, l’incivilimento della popolazione, la sua messa al lavoro per il governo capitalistico del paese. Questo di per sé comportava una concezione coloniale del governo della popolazione in generale, inteso questo termine nel senso biopolitico di Foucault, e del Meridione in particolare.
C’era anche una visione razziale, penso a Cesare Lombroso…
…Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo e buona parte dell’antropologia italiana di allora aveva costruito una visione razziale delle differenze tra Nord e Sud, che è stata in qualche modo rimossa o archiviata come una sorta di esotismo dell’epoca. Ma in realtà stava al centro di quella logica con cui è stata condotta quella guerra contro il Sud e di come è stato annesso il Mezzogiorno al Nord dell’Italia. Dal mio punto di vista, la conquista del Mezzogiorno, se così la vuoi chiamare, l’annessione del mezzogiorno, o l’unificazione in termini più egemonici, è stata la preparazione per quello che sarà poi l’impresa coloniale all’estero, e servì proprio come primo passo verso quello che si cercherà di fare all’estero. Non dimentichiamo che in quel momento – e questo lo dice anche Del Boca anche se non in questi termini – le élite italiane cercavano di costruire una narrazione sulla propria popolazione che fosse all’altezza razziale delle altre nazioni europee, si cercava in qualche modo un risarcimento razziale della storia e della popolazione italiana. Non è difficile vedere qui come la storia nazionale operi dentro la narrazione globale occidentale della supremazia bianca come necessario dispositivo di produzione – delle popolazioni e dei territori – al capitalismo come razionalità economica, possiamo dire, efficiente. La conquista del Mezzogiorno stava anche dentro questa logica. E in questo senso le guerre coloniali non faranno che rafforzare questo discorso di rivalutazione razziale di ciò che si proponeva allora come “razza italiana”, di conquista del proprio diritto a stare dentro l’arco delle razze dominanti, della razza europea, e oggi possiamo dire delle razze bianche. Quindi in qualche modo c’è un filo che connette tutte queste cose.
Anche la storiografia critica del colonialismo ha lavorato su questo punto, pur se non lo leggeva proprio in questi termini, ovvero mettendo in luce il fatto che all’epoca non si poteva aspirare a una grandezza nazionale, e a un ruolo di rilievo internazionale, senza avere colonie, era questo che bisognava giocare sul tavolo
delle grandi potenze. Era anche questo che muoveva l’espansione coloniale-imperiale europea, oltre, chiaramente, i bisogni più propriamente economici tipici del modo di produzione capitalistico. Anche se bisogna ricordare che – come ha scritto Gramsci – l’espansione coloniale italiana non seguiva in tutto le stesse logiche di quella francese o inglese, poiché non c’era un’eccedenza di capitale da investire all’estero tipica dei capitalismi avanzati, i problemi erano altri.
Questa “differenza” della logica coloniale italiane ha contribuito a costruire l’immagine del colonialismo straccione, che è comunque un ‘idea che bisogna combattere. L’idea del colonialismo straccione finisce per alimentare l’autonarrazione dell’eccezionalità dell’Italia rispetto alla brutalità sistematica degli altri colonialismi, serve in definitiva ad alimentare una propria idea di “innocenza italiana”; innocenza nel senso che “costruisce” se stessa come qualcosa di piccolo e marginale rispetto alla storia della violenza coloniale razziale perpetrata dagli altri Paesi europei. Lo abbiamo visto anche di recente, rispetto alle mobilitazioni di Black Lives Matter (BLM) negli USA dopo l’omicidio di George Floyd. Buona parte della solidarietà espressa dal mondo politico italiano e anche da una parte dei movimenti sociali si sono posti come se il razzismo, anche nella sua brutalità e violenza istituzionale, riguardasse più gli USA che non l’Italia. Per fortuna, in un secondo momento, e grazie anche alla nascita di diversi collettivi di BLM anche qui, si rigirò la questione verso la stessa storia nazionale. Ricordiamoci delle proteste contro la statua di Indro Montanelli a Milano o le iniziative a Roma per denunciare la colonialità di una certa toponomastica urbana, che non fa che ricordarci che colonialismo e razzismo sono dentro la cultura nazionale e non fuori. Il colonialismo italiano, e non solo quello fascista, per tornare alla domanda, operò anche come discorso di rifondazione razziale della nazione.
La grande proletaria si è mossa…
…la grande proletaria si è mossa, come disse Pascoli, ma era un’espressione che faceva parte delle “strutture del sentire” nazionali dell’epoca. Quello italiano è stato un imperialismo, un colonialismo minore rispetto agli altri, che è durato, quello all’esterno, solo sessantacinque anni, ma è stato altrettanto feroce degli altri. L’Italia è stata colonialista, imperialista e ha adottato anche l’ideologia della razza come propria autorappresentazione e come metodo di governo del sé e degli altri, l’unificazione nazionale nasce sull’ombra, per così dire, della razza e del razzismo. Una storia del razzismo come dispositivo di governo che non è finita certo con la sconfitta del fascismo, ma che ha avuto una sua continuità – certo non lineare – nell’immigrazione meridionale al Nord del dopoguerra e nel governo delle migrazioni internazionali successivamente. Continua tuttavia a mancare una contro-narrazione che riesca a mettere tutto questo insieme e che quindi possa servire un rilancio e un rinnovamento dell’antirazzismo come pratica teorica e politica.
Ma sulla questione del colonialismo italiano non possiamo dimenticare i campi di concentramento per la popolazione civile libica creati dall’Italia postunitaria ben prima del fascismo…
No, come dicevamo prima la storia del colonialismo italiano non comincia con il fascismo. Sui campi di concentramento nei territori coloniali la questione è ampia e variegata, tra fine ‘800 e inizi ‘900 era una della delle prassi comuni di tutti i governi delle colonie, anche perché è in quegli anni che avviene la grande penetrazione da parte dell’imperialismo europeo in Africa e in alcune regioni dell’Asia. L’Italia è stata tra le prime nazioni ha partecipato alla sperimentazione di questo dispositivo di potere, ma già nel 1904 vi era stata l’invasione tedesca e lo sterminio degli Herero in Namibia, che aveva già posto le basi di quello che saranno i campi di concentramento nazisti in Germania. Un punto di sviluppo fondamentale nella genealogia del campo di concentramento come dispositivo di governo coloniale è stato sicuramente anche la guerra boera in Sud Africa e la repressione spagnola a Cuba di fine ‘800. Se vogliamo parlare di primati di barbarie coloniale, l’Italia ne possiede parecchi: è stato, per esempio, il primo paese ad aver bombardato una popolazione civile nel 1911, così come ad aver usato i gas, come ha raccontato del Boca. La cosa importante però non è semplicemente ricordare queste atrocità commesse, una cosa che resta comunque importante, dato il livello di rimozione operante soprattutto nella sfera pubblica, ma rileggere la storia nazionale moderna, e quindi lo stesso processo di produzione della nazione, come parte dello sviluppo del capitalismo coloniale globale e di quel grande dispositivo culturale narrativo che l’accompagnato: l’idea di una superiorità di tipo razziale della civiltà occidentale. Solo così riusciremo a rendere visibile, e quindi de-naturalizzare, alcune delle forme (politiche, culturali, economiche, istituzionali) più insidiose attraverso cui il razzismo continua a riprodursi oggi come dispositivo non solo di dominio, ma anche di produzione delle popolazioni e dei territori.
Il razzismo sta dentro la natura stessa della logica di accumulazione capitalistica.
(Prima parte – continua)
Miguel Mellino é docente di studi postcoloniali e relazioni interetniche all’Università “l’Orientale” di Napoli, tra le sue pubblicazioni:
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