Corpi rimossi

Limiti e danni della didattica digitale

Da marzo 2020 la scuola, in particolare la secondaria di secondo grado, ha proseguito il proprio cammino soprattutto attraverso la DaD: una necessità nella fase emergenziale del primo lockdown, se non altro per tenere viva – in una parvenza di normalità – una relazione seppur minima con ragazzi e ragazze disorientati/e quanto e più degli adulti. Appare invece inaccettabile che ad essa si sia dovuto far ricorso, con le stesse modalità, a settembre, dopo tre mesi nei quali il Governo avrebbe dovuto provvedere a rafforzare il sistema della sanità e dei trasporti e a investire nella scuola per garantire la tanto sbandierata -e non realizzata – “ripresa in sicurezza”. Le scuole dell’infanzia e primarie e le scuole medie sono così rimaste aperte in molte Regioni – rimaste aperte per fortuna, ma per il motivo sbagliato, in una logica facilmente riconducibile all’idea di una scuola parcheggio, necessaria per garantire la prosecuzione delle attività lavorative dei genitori – mentre nelle scuole superiori ci si ritrova sospesi/e tra didattica a distanza e in presenza, in classi dimezzate dal punto di vista fisico ma moltiplicate ed estese virtualmente.

È evidente che la scuola non è stata considerata una priorità, e ad un anno dalla chiusura delle scuole è tempo di un bilancio che aiuti a capire quanto profondamente la DaD abbia inciso nella ridefinizione di spazi, relazioni, contenuti e valutazione.

 

Spazi e relazioni

La DaD presuppone uno spazio virtuale nel quale la dimensione privata della casa e quella, condivisa e pubblica, dell’aula, fisicamente distinte, si mescolano e si confondono con un rovesciamento totale della prospettiva (non sono alunni/e ad entrare in classe, ma i/le docenti ad irrompere in case di cui nulla si conosce). Abbiamo così sperimentato non solo la caduta dei confini tra tempo del lavoro e tempo personale, ma anche situazioni paradossali nelle quali i genitori hanno fatto capolino durante la videolezione, arrogandosi il diritto di intervenire e mettere in discussione il metodo e la valutazione dell’insegnante: un diritto, va detto, che nessuno potrebbe negare loro nello spazio privato della “loro” casa.

La classe virtuale, poi, attivabile solo se si posseggono determinati strumenti e conoscenze, accentua e aggrava le differenze, allontanandosi da quella scuola della Costituzione che dovrebbe “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”; essa isola ogni studente, rompendo di fatto l’unità del gruppo classe e promuovendo l’individualismo. Per non parlare poi delle scelte improvvide di alcune scuole, lecite sulla base di quanto disposto dal Ministero, di far frequentare in presenza solo gli/le alunni/e diversabili, con buona pace della scuola inclusiva.

Nel contempo, non dobbiamo dimenticare che la scuola è – anche e soprattutto – uno spazio fisico in cui si sperimentano e si stringono relazioni; il percorso di crescita che in essa si compie comincia già nel “viaggio” da intraprendere per recarsi a scuola, nella separazione dall’ambiente domestico per entrare in un ambiente altro e nel contatto con l’altro/a da sé. Questo è tanto più vero per i/le bambini/e che proprio attraverso questo primo allontanamento dalla casa e dalla famiglia cominciano a fare esperienza del mondo e di sé e che forse più di tutti hanno sofferto e continuano a soffrire dell’isolamento con danni che ancora non siamo in grado di valutare interamente, se è vero – come afferma il pediatra Ernesto Burgio – che solo un ambiente fisico accogliente permette al/alle bambino/e di sviluppare al meglio il proprio organismo, il sistema nervoso centrale e la corteccia cerebrale.

La considerazione della scuola come semplice contenitore (di corpi e di informazioni) in cui apprendere nozioni fa sì che essa venga ritenuta facilmente sostituibile con una macchina contenitore (il dispositivo) e fa perdere di vista completamente la dimensione relazionale: non può esservi, però, didattica senza relazione. Nel caso della scuola dell’infanzia, poi, la didattica a distanza mette in discussione la stessa funzione di una scuola che dovrebbe esplicarsi – secondo le Indicazioni Nazionali del 2012 – “in un’equilibrata integrazione di momenti di cura, di relazione, di apprendimento, dove le stesse routine (l’ingresso, il pasto, la cura del corpo, il riposo, ecc.) svolgono una funzione di regolazione dei ritmi della giornata e si offrono come ‘base sicura’ per nuove esperienze e nuove sollecitazioni”. E nel naufragio della relazione, ad essere sommersi sono stati soprattutto gli studenti e le studentesse fragili, con diversabilità, disturbi dell’apprendimento o difficoltà economiche e/o personali.

La perdita della dimensione relazionale riguarda naturalmente anche i/le docenti: il loro spazio fisico di confronto, non solo istituzionale ma anche informale (nei corridoi, nella sala docenti), è stato cancellato dapprima con la chiusura, ora con il distanziamento (e la paura). Certo, gli incontri si sono svolti in modalità a distanza: questi però, se da un lato sono stati l’unico appiglio cui aggrapparsi per garantire l’esercizio della democrazia nella scuola, dall’altro si sono rivelati, in molte scuole, la cartina di tornasole dell’eccesso di dirigismo di molti DS e del crescente disinteresse e/o della stanchezza di molti/e colleghi/e che hanno ormai smesso di credere negli organi collegiali.

 

Demenza digitale

La pedagogia e le neuroscienze sottolineano da tempo l’importanza del corpo nei processi cognitivi: a livello neurologico, il corpo è coinvolto direttamente nella creazione delle tracce nelle regioni più semplici della corteccia cerebrale e qualsiasi competenza mentale superiore può realizzarsi solo passando attraverso queste tracce. Per comprenderlo, basterà pensare, solo per fare un esempio, all’importanza delle mani nell’apprendimento della matematica. La stessa etimologia del verbo “com-prendere” si spiega proprio facendo riferimento a questa dimensione fisica. Ora, non si può dubitare dell’utilità degli strumenti informatici in sé, ma è lecito criticare la pretesa di fare del digitale LA didattica: e se è innegabile che si possa fare didattica anche con il digitale, è altrettanto vero che il digitale da solo – come si è visto – non basta a fare didattica.

È poi importante considerare i danni che l’uso dei media digitali può causare al funzionamento del cervello. Nel saggio Demenza digitale del 2015, Manfred Spitzer, autorevole neuroscienziato tedesco, afferma che il nostro cervello funziona come un muscolo che si modifica in base all’utilizzo, con sinapsi che si definiscono quando vengono sollecitate e si atrofizzano fino a morire quando rimangono inutilizzate, cosa che accade quando usiamo i media digitali: questi, infatti, non possono consentire il lavoro mentale autonomo e approfondito che l’apprendimento presuppone (e il linguaggio di settore che usiamo lo dimostra: le pagine virtuali si scorrono, non si sfogliano) e rendono superficiale il pensiero. Essi, inoltre, agiscono anche sulla dimensione sociale: un numero minore di contatti reali conduce a una diminuzione delle dimensioni delle zone cerebrali preposte alle competenze sociali; ne conseguono stress e perdita di autocontrollo, con l’innesco di una “spirale sociale discendente che ostacola una vita sociale differente”. Ed è quanto abbiamo visto accadere ai/alle nostri/e ragazzi/e, in un crescente disagio che la pandemia ha acuito e che li ha spinti al ritiro sociale e alla reclusione dal mondo esterno.

 

Corpo e apprendimento

Il problema appare tanto più grave nella fascia d’età prescolare. Spitzer sottolinea come solo attraverso l’apprendimento con la manipolazione il modello di attivazione motoria del cervello diventi parte della struttura concettuale: insomma, dice: “chi osserva il mondo solo spostando e cliccando sul mouse, saprà pensarlo meno bene, perché un clic del mouse non è che un atto descrittivo e non rappresenta una forma di manipolazione di un oggetto”. Ed è fonte di preoccupazione anche la digitalizzazione della scrittura, che può avere conseguenze negative sulla capacità di lettura: studi di neuroimaging condotti con la risonanza magnetica funzionale mostrano che il riconoscimento di lettere imparate per mezzo della scrittura con la matita portano ad una maggiore attività nelle regioni motorie del cervello, cosa che non accade per le lettere apprese tramite la tastiera. E se ciò non avviene nei primi tre-quattro anni di vita, il rischio reale, come dice Ernesto Burgio, è che si perda un patrimonio enorme – quello costruito in cinquemila anni di storia della scrittura. Dunque, pur riconoscendo la funzione necessaria assolta dai media digitali nell’emergenza, non va mai persa di vista la necessità di un approccio critico e consapevole. Proprio la considerazione delle caratteristiche dello strumento utilizzato, peraltro, avrebbe dovuto imporre un’articolazione diversa del tempo scuola, mentre nella quasi totalità delle scuole si è semplicemente trasferito online l’orario svolto in presenza, con in più soltanto un intervallo di 15 minuti tra un’ora e l’altra.

Vi è poi il problema dei contenuti, strettamente collegato ad una idea di scuola in cui le competenze hanno sostituito i saperi, liquidati come nozionismo e ridotti a “saperi essenziali”, come è evidente tanto nella semplificazione dei libri di testo, sempre più snelli, quanto nell’ultima riforma dell’esame di maturità, in particolare nella trasformazione della prima prova. Ed è innegabile che la stessa funzione docente sia stata progressivamente modificata dall’applicazione della didattica per competenze e dalla invalsizzazione della scuola: il docente è diventato così facilitatore, motivatore, allenatore/addestratore. In questo senso la didattica a distanza appare per il/la docente-coach la dimensione ideale nella quale facilitare la “trasmissione di contenuti” con videoconferenze per classi aperte, l’ambiente ideale in cui “somministrare” pillole di contenuti, materiale standardizzato e preconfezionato che le varie piattaforme hanno provveduto prontamente a rendere disponibile insieme a prove di valutazione ugualmente standardizzate. I/le docenti tecnofili (come li chiama Spitzer) hanno colto al volo e in modo spesso acritico tale opportunità che, innegabilmente, ha alleggerito il lavoro di preparazione e elaborazione dei materiali da proporre, ricadendo però spesso nella logica del sacco da riempire: alunni/e sono stati/e così sottoposti/e ad un carico cognitivo eccessivo nella migliore delle ipotesi oppure, nella peggiore, si sono trovati ad essere destinatari, sia a distanza che in presenza, di modalità di lavoro tipiche della scuola trasmissiva e passivizzante degli anni ‘50 del Novecento.

 

In ordine sparso

Spiace constatare che all’infuori dei Cobas e del Cesp, pochi/e abbiano tentato di riflettere criticamente sulla questione e che, con il rientro a scuola, tutto sia ripreso come se niente fosse. Seguire una strada diversa sarebbe stato possibile, come si è fatto in diversi casi: per esempio, offrendo agli studenti e alle studentesse, al di là della mera lezione frontale, anche l’opportunità di acquisire nuove capacità critiche nell’utilizzo – individuale ma guidato – di materiali diversi ( libri, film, musica, documentari ecc.), cui far seguire la restituzione di lavori (elaborati scritti, grafici etc.) in cui gli spunti proposti fossero autonomamente rielaborati. Si è trattato però di iniziative portate avanti in ordine sparso da docenti che si sono voluti mettere in discussione, senza suggerimenti da parte del Ministero in ordine a strumenti e metodologie.

D’altra parte, se ciò è stato, almeno in linea teorica, possibile nelle scuole superiori e in misura minore nelle scuole medie, ben diverso e più complicato è il discorso per quanto riguarda le scuole dell’infanzia e primaria, a prescindere dall’impegno profuso da maestre(i che hanno adottato soluzioni diverse, spesso meritorie, ma sempre in ordine sparso. La Commissione nazionale per il sistema integrato Zerosei (istituita con il D.lgs. 65/2017) ha pubblicato, il 6 maggio 2020 (a due mesi dall’inizio del lockdown!), il documento di lavoro Orientamenti pedagogici sui Legami Educativi a Distanza, come è stata rinominata la DaD per la fascia d’età da zero a sei anni. Esso contiene molte buone intenzioni (la riduzione del tempo scuola a tre ore settimanali, la proposta di realizzare podcast o video registrati da parte degli insegnanti, l’invio di materiale diverso a chi non dispone di una connessione o di un dispositivo), con un peccato originale, cui si è accennato all’inizio: non può esservi didattica senza relazione, tanto meno nella scuola dell’infanzia. In questo senso, non si può che considerare favorevolmente la decisione – anche se adottata, come si diceva, per i motivi sbagliati – di mantenere aperte le scuole dell’infanzia e primaria (con poche eccezioni) sin dall’inizio del nuovo anno scolastico anche nelle zone rosse, scelta che ha consentito un ritorno ad una certa normalità almeno per la fascia d’età più fragile ma che ora, pare, sarà abbandonata per tornare alla chiusura di tutte le scuole in quelle zone.

Del resto, che la didattica a distanza non abbia funzionato dal punto di vista dei contenuti è dimostrato dal fatto che il ministro Bianchi abbia parlato della necessità di un recupero indifferenziato per tutti/e, peraltro con il proposito di affidarli a cooperative di servizi. E sul recupero del “tempo perduto” in classi in cui l’attività didattica non è mai stata interrotta ma che sono obbligate a svolgere i test Invalsi e le attività di PCTO, ci sarebbe molto da discutere.

Sarà poi appena il caso di ricordare che lo svolgimento dell’attività didattica è stato assicurato non da una piattaforma ministeriale, ma dalle piattaforme delle grandi multinazionali (Google, Microsoft), che hanno implementato i loro sistemi praticamente a costo zero.

 

Problemi di valutazione

Abbiamo assistito, dall’avvio della DaD, alla trasposizione sic et simpliciter di quanto previsto in presenza nella modalità a distanza, con l’applicazione di criteri di valutazione tradizionali ad un sistema che tradizionale e normale non era né poteva essere. È evidente che la DaD non può in alcun modo garantire l’attendibilità (o affidabilità) delle verifiche, nonostante le trovate “creative” (o folli, secondo il punto di vista) di alcuni colleghi e colleghe particolarmente zelanti ( mani in alto o dietro la schiena, cappucci, occhi chiusi ecc). Eppure, nonostante la battaglia portata avanti in alcuni Collegi dei Docenti, ha vinto la scuola del voto, ricorrendo – nella fase della DaD – a test standardizzati (a risposta chiusa, con un eccesso di semplificazione e banalizzazione che non permette di dare conto della complessità, o aperta, con il rischio di plagio sempre dietro l’angolo) e a tempo, per scongiurare il pericolo del copia e incolla, con ovvie conseguenze sulle capacità di gestire l’ansia da parte di alunni/e già provati/e dalla situazione.

 

Ritorno alla normalità

Di fronte a oggettive difficoltà e in assenza di ricette magiche, è mancato un momento di analisi collettiva in seno ai Collegi dei Docenti per giungere a soluzioni condivise. Un’altra occasione perduta: al rientro a scuola, tutto è ripreso – quasi ovunque – come prima, senza alcuna riflessione critica.

È vero che stiamo vivendo un momento di grande difficoltà e di disorientamento, ma proprio per questo dovremmo trovare la forza e la motivazione per superare il clima di stanchezza, demotivazione e disinteresse che si respira (con la mascherina, naturalmente) nei pochi momenti di incontro fisico e nelle sessioni online degli Organi Collegiali; dovremmo tornare a riaffermare con forza l’importanza dei momenti di partecipazione democratica nella vita di una scuola. E questo è particolarmente importante adesso, considerate le parole del ministro Bianchi a proposito della necessità di “eliminare la collegialità ritualistica, burocratica e standardizzata” in nome dello “scopo morale ed etico della professione”: evidentemente, il confronto democratico è considerato immorale.

Superare la logica dell’individualismo e dell’isolamento che l’introduzione del Bonus premiale, come prevedibile, aveva alimentato e che il distanziamento ha risvegliato e riscoprire la dimensione collegiale del nostro lavoro, anche attraverso attività di autoaggiornamento e autoformazione si può e si deve fare.