Richiamo all’ordine

Il ruolo degli insegnanti nella scuola medicalizzata

photo credits: Diggeo

Perché insegno? Qual è il senso che do al mio lavoro? Perché ogni mattina mi alzo, vado a scuola, parlo per ore, interrogo, interagisco con studenti, colleghi, genitori? Perché poi il pomeriggio correggo compiti, preparo lezioni, sbrigo una massa enorme di burocrazia? E cosa vorrei ottenere da questa continua interazione? Cosa ottengo veramente? Quale valore aggiungo all’esistenza degli individui e dei gruppi con cui interagisco, e alla società a cui appartengo?

La medicalizzazione di massa degli studenti e la delega di parti importanti della nostra professione di docenti agli esperti in altre discipline trova il suo humus ideale in uno smarrimento generalizzato del senso e delle motivazioni profonde che guidano il nostro lavoro. Per cui sento il bisogno di cominciare proprio da qui, da alcune semplici domande, e di cercare qualche risposta. Forse vale la pena di ritornare su ciò che diamo per scontato e che scontato non è più.

 

Interagire non indottrinare

Insegnare significa condividere pezzi di vita, conoscenze ed esperienze, culture – nel senso più vasto e laico del termine – tra le generazioni. Non significa indottrinare ma interagire. Non significa preparare al lavoro ma preparare alla vita, non ha come obbiettivo la formazione di un futuro lavoratore, ma di una persona che riesca a interagire con le altre nella maniera il più possibile preparata e critica, anche nel mondo del lavoro. Con sfumature diverse al liceo come alle scuole professionali, alle scuole dell’infanzia come alle elementari e alle medie.

Insegnare è un’attività fluida, cangiante, sfumata. Proprio perché basata sull’interazione e non sui dogmi. L’attività dell’insegnamento ha tante caratteristiche ma non ha, per fortuna (sarebbe più comodo ma assai meno creativo e gratificante) quella dell’assolutezza, dell’indiscutibilità, della categoricità. Non esiste una scienza dell’insegnamento, non esistono metodi validi in assoluto. La storia dell’insegnamento è storia di didattiche e di pedagogie (al plurale) legate a culture legate a territori legati a soggettività – docenti e discenti – diverse. Ecco: insegnare è qualcosa che inerisce di più alla sfera del soggetto che a quella dell’oggetto. Insegnare è un’attività che fa interagire in prima istanza soggettività, singole e in gruppo. Per questo il rapporto relazionale e didattico-pedagogico-educativo è aperto, mutevole, in divenire.

Siamo, continuiamo a essere disponibili all’apertura e al cambiamento noi adulti, stanti più o meno saldi i personali paradigmi di riferimento che hanno accompagnato l’ingresso nell’adultità. Cosa dovremmo pensare dei nostri studenti e delle nostre studentesse? Sono, esse sì, l’emblema della mutevolezza, della variabilità, della transizione. L’età scolare è un periodo della nostra vita in cui l’orologio biologico gira a velocità vorticose, ed è segnata dal ritmo irripetibile di cambiamenti-raggiungimenti-passaggi-superamenti che scandisce l’evoluzione fisica e psichica. Entriamo a scuola bambine e bambini, ne usciamo uomini e donne.

La crescita non è solo biochimica. Le fasi evolutive sono contrassegnate da rapporti ambientali, relazionali e quindi fluidi e mutevoli. E in quell’ambiente un ruolo importante è svolto proprio da noi insegnanti. Nelle nostre aule passano tutte e tutti, per almeno dieci anni di vita fino all’obbligo della scolarizzazione. Più altri anni per arrivare alla maturità. Più gli anni della scuola d’infanzia.

Il nostro è un ruolo importante, difficile e delicato. Giorno dopo giorno affianchiamo, assistiamo e accompagniamo giovani corpi e giovani menti che sbocciano e acquisiscono una propria individualità fisica e psichica, una propria unica e irripetibile modalità di interagire con le persone e con l’ambiente. In ognuna e ognuno rimarrà una parte di noi, più o meno importante.

Ogni giorno interagiamo con personalità in divenire, e le poniamo di fronte a prove di conoscenza e di esperienza. La nostra professione richiede una spiccata capacità di improvvisazione, un’attitudine alla sperimentazione e una particolare predisposizione alla relazione e all’empatia. Saper interagire con il cambiamento è un lavoro assai difficile e mai scontato, mai dato una volta per tutte.

 

La pedagogia neo liberista

Vero è che la scuola italiana, di fronte alle sfide della contemporaneità, era da tempo ed è in attesa di uno svecchiamento, di una evoluzione, di un adeguamento rispetto a una realtà in mutazione costante e ultraveloce. Nel frattempo però come insegnanti ci troviamo a fare pesantemente i conti, prima che con una filosofia dell’insegnamento, con le esigenze ben poco didattiche ma assai più aziendali della produttività, dell’efficienza, della centralità del risultato. La versione neoliberista di certa pedagogia anglosassone marcata sin dalle fondamenta da uno scientismo determinista di marca pragmatista ha stravolto dalle fondamenta, in un processo tuttora in corso, un intero patrimonio di studi pedagogici e di esperienze didattiche. In piena temperie neoliberista una serie di riforme sta imponendo, con il viatico dei corsi di formazione ministeriali, una mutazione antropologica della classe docente. Si tratta di un meccanismo che tende a trasferire i dispositivi di produzione e di controllo della fabbrica e dell’impresa nel lavoro creativo dell’insegnamento. Un’ossessione deterministico-economico-efficientista si è ormai solidamente impiantata in tutti i settori del nostro agire professionale. Ne troviamo i segni in primo luogo nella centralità della valutazione declinata sempre più a docimologia, a ricerca di metodi e parametri oggettivi: con il fine primario di rendere plausibile la misurazione della performance scolastica e quello neanche tanto nascosto di mettere in competizione e selezionare studenti, docenti, scuole e interi sistemi educativi; ma anche nella pervasività della didattica digitale, nel meccanismo del bonus per i meritevoli, nell’inseguimento delle competenze e degli obiettivi, nella didattica standardizzata misurata coi test, nella trasformazione dell’insegnante in un esperto del metodo didattico, nel sistema crediti-debiti, nei principi della customer satisfaction applicati più o meno coscientemente ai rapporti con studenti e genitori.

 

Medicalizzazione a tappeto

L’esplosione delle certificazioni, la psichiatrizzazione dei comportamenti, la medicalizzazione della scuola si inseriscono a pieno titolo in questo trend. Nel gigantesco melting pot dei BES (gli special needs di derivazione anglosassone) con pazienza certosina sono distinti e catalogati puntigliosamente, anche sulla scorta della quinta versione del DSM, disabilità e disturbi veri o presunti, difficoltà e scarti dalla norma. All’improvviso abbiamo scoperto di non poter più fare a meno del supporto di una catalogazione sistematica dei comportamenti sin dall’infanzia, del loro inserimento in un sistema precostituito in cui a ogni casella è assegnato un acronimo e una formula, e di una ricetta finale con le opzioni educative dettate dagli esperti secondo modelli standardizzati a cui dobbiamo strettamente attenerci. L’approccio deterministico e aziendalista rappresenta un riferimento ideologico palese, seppur viziato all’origine. Il comportamento considerato deviante e non conforme a canoni prestabiliti di normalità viene isolato (all’interno bensì di un processo appartenente a un periodo di sviluppo assai più ampio e coincidente con l’intera età evolutiva) e fotografato, trasformato in diagnosi, strappato al rapporto didattico (fluido, relazionale, empatico, in divenire) e cristallizzato all’interno di piani didattici personalizzati, sotto la minaccia dei ricorsi. E, sempre più spesso anche qui da noi, curato con i farmaci. La medicalizzazione della scuola è inquadrabile all’interno dell’esigenza di ridurre a una risposta semplice e immediata l’interazione complessa dei diversi elementi che determinano i comportamenti in età evolutiva; è lettura sincronica di una realtà diacronica; è invasione di una visione deterministica nella complessità che caratterizza l’azione pedagogico-didattica.

L’asettica meccanicità del processo implica la spersonalizzazione del rapporto didattico-pedagogico e, oltre alle conseguenze tragiche sulla pelle della “generazione da sedare” (abbiamo una minima idea di cosa significa somministrare pillole anfetaminosimili a persone in età evolutiva dai 6 anni in su?) implica la morte di un’idea di scuola e della professione docente.

 

I pericoli della “nuova scuola

Avere un punto di vista altro sull’organizzazione e sulla gestione delle scuole come sull’approccio pedagogico sta diventando sempre più maledettamente difficile. Significa mettere in discussione giorno per giorno ogni aspetto della “nuova scuola”, la cui rigida burocrazia e i cui modelli organizzativi e didattici diventano sempre più pervasivi. E se ci sono ancora insegnanti che seguono ancora una propria strada a schiena dritta e con un bagaglio professionale costruito sul campo, tante e tanti sono quelle/i che proprio non ce la fanno e cedono.

Su questi terreni sempre meno fecondi attecchisce la logica della “nuova scuola”. Un’estensione dei principi della new economy diventa il surrogato dell’esperienza, della partecipazione, della condivisione. Un nuovo e malinteso determinismo meccanicistico ne fornisce i mezzi atti a risolvere unidirezionalmente le difficoltà professionali a spese di un’intera generazione.

È l’esatto contrario della scuola della condivisione, dell’ascolto empatico, del ruolo attivo dell’insegnante, dell’esperienza che si fonda nel contatto giornaliero con lo studente e con il gruppo classe. Ha un livello di pervasività enorme, e anche nelle scuole italiane sta assumendo le sembianze di una massiccia invasione da parte di modelli psichiatrizzanti e medicalizzanti del campo che fino a poco tempo fa era di pertinenza pedagogica-didattica-educativa.

Anche come insegnanti vorrebbero ridurci ad automi consequenziali e consenzienti. Sta solamente a noi saper recuperare un senso alla nostra azione educativa.