photo credits: Matthias Wewering
Tutti i dati statistici confermano una sensazione diffusa tra chi passa la propria vita professionale nelle aule della scuola italiana: siamo di fronte a un aumento esponenziale di diagnosi e certificazioni di disabilità, di patologie psichiatriche, di disturbi e di difficoltà.
Le statistiche più recenti del Miur sulle disabilità risalgono al maggio 2019.
Confrontando le tabelle, accanto ai dati dell’esplosione delle diagnosi (dall’1,4% del 1997/98 al 3,1% del 2017/18: in 20 anni il numero è più che raddoppiato, da 123.862 a 268.246) salta agli occhi il fatto che attualmente la tipologia più diffusa è quella delle disabilità intellettive che da sole rappresentano il 68,4% del totale. Attenzione e comportamenti, affettivo-relazionali, apprendimento: si tratta di quelle disabilità il cui processo diagnostico ha spesso come riferimento il DSM-5, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, oggetto di profonde critiche di metodo e di merito e accusato, anche da parte suoi stessi estensori1, di aver ampliato a dismisura lo spettro delle patologie psichiatriche fino al punto di lasciare ben poco spazio alla cosiddetta “normalità”. Si tratta di un aumento percentuale che non ha confronti a livello internazionale e che non ha precedenti in Italia, e che pone più di un dubbio sull’attuale boom terapeutico a cui sono sottoposte le giovani generazioni nel nostro Paese.
Dubbi ulteriori sorgono dal confronto con le percentuali dei disabili tra gli studenti stranieri (4,1 % del totale stranieri) e quelli italiani (3% del totale italiani). Stessi dubbi accompagnano la statistica che fotografa una preponderanza di disabilità tra gli allievi maschi (4,2%), assai più diffusi rispetto alle femmine (1,9%) rispetto alla totalità delle studentesse e degli studenti.
Il rilevante aumento delle certificazioni
I conti non tornano. Per giustificare un trend di questo tipo non basta più appellarsi all’efficacia dei nuovi strumenti diagnostici. Se è vero infatti che nell’arco di tempo considerato sono sicuramente evoluti, è vero anche che sul piano del trattamento e della prevenzione i progressi non sono stati da meno. Ma anche l’esperienza scolastica ci dice che le certificazioni non corrispondono sempre a problematiche didattico-pedagogiche tanto gravi da giustificare provvedimenti così estremi. Anche tra psichiatri e neuropsichiatri c’è un vivo dibattito sull’argomento. Quelli che sono intervenuti ai nove partecipatissimi convegni Cesp che dallo scorso novembre abbiamo organizzato in tutta Italia hanno confermato la grande confusione attuale sui sistemi di valutazione diagnostica già messa in luce anche da voci assai autorevoli della psichiatria2.
Anche le statistiche riguardanti il secondo gruppo di bisogni speciali, i Disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), mostrano criticità inspiegate. La legge 170/2010 (Gelmini), se da una parte ha avuto il merito di imporre sui Disturbi specifici un’attenzione didattica fino a quel momento lacunosa, dall’altra ha spalancato le porte alla certificazione diffusa. Le statistiche Miur a riguardo, anche qui, parlano chiaro:
a. s. | % di certificazioni DSA | Variazione rispetto a.s. precedente |
2013/14 | 1,7% | |
2014/15 | 2,1% | +23,5% |
2015/16 | 2,5% | +19% |
2016/17 | 2,9% | +16% |
2017/18 | 3,2 | + 10% |
La parabola ascendente delle percentuali di certificazioni di DSA sul totale delle studentesse e degli studenti delle scuole italiane testimonia anche qui un ricorso eccessivo alla certificazione di dislessie, discalculie, disgrafie e disortografie, anche se la serie statistica indica un processo di assestamento dopo i primi anni dalla L. 170. Assistiamo a una corsa alla certificazione che troppo spesso non trova motivazioni didattico-pedagogiche e non è spiegabile solamente con la rinnovata (e giusta) attenzione con cui la scuola deve modulare la didattica in caso di disturbo effettivamente invalidante il percorso scolastico. Eppure in questi anni diverse voci assai accreditate3 di fronte a questa ennesima parabola ascendente delle certificazioni hanno lanciato l’allarme sui “falsi positivi”: sul fatto cioè che i veri disturbi dell’apprendimento con specifiche compromissioni neurologiche sono rari. Assai più diffuse sarebbero invece le difficoltà e non i disturbi di apprendimento dovute, più che a compromissioni neurologiche, a problematiche ambientali e relazionali risolvibili o attenuabili con opportune strategie didattico-pedagogiche a scuola ed educative in famiglia. E non con il ricorso meccanico alla certificazione e al Piano didattico personalizzato. Un’ossessione diagnostica diffusa spinge invece in senso contrario anche per i DSA: screening a tappeto in tutti gli ordini di scuola per non lasciare nessuno fuori dalle sottili maglie del trattamento medicalizzante; facoltà di rilasciare certificazioni estesa in molte regioni anche agli studi privati, fino a poco tempo fa non autorizzati.
In un un meccanismo ormai avvitato su se stesso che ricade negativamente anche sulle studentesse e sugli studenti con DSA effettivamente invalidante a livello degli apprendimenti. È una considerazione fuorviante quella che induce a pensare che la certificazione e il Piano didattico personalizzato (obbligatorio per i DSA) con il diritto agli strumenti compensativi e alle misure dispensative siano sinonimo di successo scolastico. Un equivoco in cui cade anche l’Associazione Italiana Dislessia che preme per adeguarsi a prevalenze internazionali stimate fino al 12%. Ma il superamento delle difficoltà e un lavoro didattico efficace sono fondati su qualcosa di meno meccanico e consequenziale di una diagnosi, di una certificazione e di un obbligo di legge.
Rapporti educativi burocratizzati
Eppure non si può guardare all’intera questione della medicalizzazione della scuola senza far riferimento alla continua richiesta di burocratizzazione del rapporto educativo a cui come insegnanti siamo sottoposti.
Come docenti siamo direttamente chiamati anche a collaborare attivamente alla diagnosi di presunti disturbi. Il Deficit di attenzione e iperattività (ADHD) – che di per sé non dà diritto automatico a un Pdp -, la sindrome dall’«eziologia sconosciuta» secondo la scheda tecnica del Ritalin (il farmaco a base di anfetamine da somministrare a giovani dai 6 anni in su), la patologia disconosciuta dai suoi stessi padri (“malattia fittizia”, secondo Leon Eisemberg, “disastro nazionale di proporzioni pericolose” secondo Keith Conners, per il quale “c’è qualcosa che deve essere ancora scoperto che possa identificare che cosa è l’Adhd e cosa non lo è”), dal 2007 e in maniera sempre più pervasiva sta diffondendosi anche tra i giovani studenti italiani.
Sempre più spesso siamo chiamati a compilare questionari di osservazione (il più diffuso è proprio il Conners elaborato dallo scienziato pentito) essenziali per la diagnosi del disturbo, valutando se e quanto: “non riesce a fare le cose correttamente”, “non riesce a decidere quali siano le cose più importanti”, “parla senza aspettare il proprio turno”, “fa errori”, “parla troppo”, “si preoccupa per molte cose”, “si annoia”, “è uno degli ultimi a essere scelto per far parte di una squadra di un gioco”, “si comporta come un angioletto”, e via su questo tenore per 130 items4.
A 8 anni dall’avvio della farraginosa macchina dei Bes. il Miur non ha ancora fornito cifre attendibili sui cosiddetti Bes di terzo tipo. In mancanza d’altro, gira in rete il resoconto di un’intervista del giugno 2013 a un alto dirigente5 che basandosi su dati e prospezioni stimava intorno a un milione la cifra totale, fra cui sarebbero compresi 80.000 studenti con ADHD e circa 400.000 (con un’incidenza del 5%) con funzionamento intellettivo limite. Più difficile per il funzionario ministeriale fare una valutazione numerica degli alunni che rientrerebbero nell’area dello svantaggio economico o culturale. Vero è che per esperienza diretta, in mancanza di statistiche più attendibili, sembrerebbe che proprio le difficoltà momentanee come il lutto, i dissesti economici, i problemi di lingua conseguenti alle migrazioni, la timidezza, l’ansia e le normali circostanze avverse della vita schedate, catalogate, diagnosticate e certificate nel range del DSM, siano i principali protagonisti dei pervasivi meccanismi medicalizzanti e psichiatrizzanti che stanno scuotendo dalle fondamenta la scuola italiana.
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1Allen Frances, Primo. Non curare chi è normale, Bollati Boringhieri, Torino, 2013
2Tra tutte ricordo Michele Zappella, che in Le risorse le abbiamo, sono i bambini stessi (“Conflitti”, n. 3, 2017, p. 42) argomenta assai efficacemente intorno alla «copertura diagnostica di situazioni di altra natura».
3Fra tutti ritengo assai importanti gli interventi di Daniela Lucangeli, ordinaria di Psicologia dello Sviluppo e prorettrice presso l’Università degli Studi di Padova, https://questionediprincipi.wordpress.com/2012/04/02/intervista-lucangeli-troppe-diagnosi-di-disturbi-dellapprendimento/, https://www.nostrofiglio.it/bambino/disturbi-dellapprendimento-la-differenza-tra-disturbo-e-difficolta. Vedi anche Daniele Novara, Non è colpa dei bambini, Rizzoli, Milano, 2017.
4Anche se alcuni Enti locali e Usr hanno escluso la possibilità di somministrare test di valutazione dello stato psichico degli studenti, vedi Chiara Gazzola, Sebastiano Ortu, Divieto d’infanzia, Bfs, Pisa, 2018.
5https://www.orizzontescuola.it/sono-circa-milione-bes-italia/
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