A febbraio di quest’anno due iniziative hanno suscitato non poco interesse, per non dire scalpore, ben al di fuori delle mura scolastiche, una in un liceo della capitale il Giulio Cesare, l’altra al liceo Corradini di Thiene (VI).

Cosa è accaduto di così eclatante in queste due scuole? In realtà le iniziative in questione riguardavano temi educativi importanti soprattutto in una prospettiva di prevenzione e informazione: il tema dell’aborto, dell’identità di genere e i temi LGBT. Sia al liceo romano che a quello di Thiene le iniziative erano proposte dalle studenti, che consideravano le questioni non solo degne di attenzione ma meritevoli di approfondimento. Insomma, un’occasione di crescita, soprattutto in un contesto, come la scuola italiana, dove l’educazione sessuale e le iniziative per contrastare l’omolesbobitransfobia sono in gran parte neglette se non un vero e proprio tabù. Al liceo Giulio Cesare, la preside aveva in sostanza censurato i temi dell’aborto e dell’identità di genere che le studenti intendevano trattare durante una settimana di lezioni autogestite. A Thiene invece la preside aveva emanato una circolare per informare della nascita di un gruppo di confronto sui temi LGBT, su proposta delle studenti, ma il fatto aveva scatenato la prevedibile canea “anti-gender”, guidata dall’assessora regionale all’istruzione Donazzan, salita recentemente agli onori della cronaca per le sue doti melodiche esibite nel canto fascista Faccetta nera nel corso della trasmissione radiofonica La zanzara.

Se ci prendiamo la briga di andare a leggere il comunicato della preside del liceo romano non ci stupiamo di trovarci di fronte alla più classica arrampicata sugli specchi: per argomentare la censura operata sul tema dell’aborto aveva richiamato la necessità di non concentrarsi solo sulla dimensione sociosanitaria, quindi era meglio non fare nulla e imporre il silenzio. Invece per zittire qualsiasi confronto sul tema dell’identità di genere, la preside aveva preso come scusa la nota MIUR n.1972 del 2015 perché le sembrava adatta per agitare lo spauracchio del “gender”, omettendo invece che proprio in quella nota è scritto a chiare lettere il dovere della scuola di affrontare le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere. A Thiene le cose non erano andate meglio: l’assessora Donazzan aveva preso di petto la situazione e comunicato urbi et orbi che i temi LGBT sono delicati e conflittuali, appartengono alla sfera più intima della persona e quindi è meglio non parlarne, se ne occupino le famiglie. Insomma, siamo al sempre verde don’t ask don’t tell: non si parla di queste cose in pubblico, tanto meno a scuola.

Ed eccoci quindi ben piantati nella scuola del XXI secolo: digitalizzazione forzata, competenze al posto dei saperi, educazione civica a costo zero, formazione delle cittadine e dei cittadini del futuro purché il tutto non turbi la sensibilità delle coscienze più attente alla morale cattolica che ai diritti e alla salute delle persone.

Il dispositivo è abbastanza chiaro: meno se ne parla e meglio è. In un’Italia dove la Legge 194 è spesso disattesa, dove l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza è una corsa a ostacoli tra medici obiettori e lo smantellamento dei consultori, spesso affidati a privati sotto l’influenza della Chiesa, dove scarsa è la diffusione di una cultura della contraccezione e della prevenzione, il silenzio imposto è l’arma di un dispositivo che erode gli spazi di discussione, comprime l’informazione e attacca in maniera subdola la libertà di scelta delle donne. Una scuola che impedisce alle studenti il dibattito su questi temi contribuisce a veicolare e alimentare la riprovazione sociale nei confronti dell’aborto.

Lo stesso dispositivo funziona anche nei confronti dei temi LGBTQ. Ricerche nazionali e internazionali ci dicono che la scuola non è un luogo sicuro per studenti LGBTQ, che sono esposti a violenza fisica, verbale e psicologica, a discriminazione ed emarginazione sociale. Fenomeni che determinano un contesto scolastico che ostacola la visibilità e la libertà di espressione di studenti lesbiche, gay, bisessuali e transgender; un contesto dove l’eterosessualità e il binarismo di genere rappresentano modelli normativi imposti da una cultura che stigmatizza chi ad essi non si adegua. Se poi la scuola decide, magari appellandosi alla patacca teorica della cosiddetta “ideologia gender”, di silenziare i temi LGBTQ, rinchiudendoli nella gabbia della sfera privata o delle questioni “sensibili”, completa l’opera e fa un bel favore a quelle forze clerico-fasciste che pretendono di dettar legge sulla scuola, decidendo quando possiamo parlare e quando dobbiamo tacere.

In questi anni il CESP ha condotto un necessario lavoro di riflessione e di formazione del personale scolastico sui temi come le questioni di genere e l’omolesbobitransfobia proprio per smantellare quell’apparato ideologico che pesa sul sistema educativo italiano dove gli stereotipi che colpiscono le donne e le minoranze sessuali veicolano ancora un’idea patriarcale, sessista ed eteronormativa della società. A questo proposito rimando a due recenti lavori curati dal CESP, che affrontano tali temi e rappresentano un utile strumento di riflessione e di intervento educativi: Che genere di scuola? Educazioni differenti per una società plurale, pubblicato da Massari Editore, e il manuale Classe arcobaleno. Una guida per agire in supporto a studenti lesbiche, gay, trans, queer, intersex e altre identità della tua scuola, scaricabile cliccando sull’immagine.

Nota a margine: l’universale femminile è intenzionale