Il 14 gennaio 2017 il Consiglio dei Ministri ha approvato otto decreti attuativi previsti dalla legge n. 107/2015 (commi 180-181), manca il nono, quello sulla revisione del Testo Unico (d.lgs n. 297/1994) che contiene tutta la raccolta di norme che riguardano la scuola. Gli otto decreti toccano questioni importanti, ma sono stati scritti senza alcun coinvolgimento diretto del mondo della scuola e risultano, pertanto, la messa in atto di tutto quello che sino ad ora i docenti hanno avversato nelle mobilitazioni contro la Legge n. 107/2015.
Dall’analisi generale dei decreti emerge in particolare quella che si potrebbe definire un’invariante, le prove standardizzate, studiate e preparate dall’INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione), che permea tutti gli ordini di istruzione. L’Istituto preposto alla valutazione del sistema nazionale di istruzione acquisisce, infatti, definitivamente, con i decreti attuativi, un ulteriore spazio ed inscrive, in maniera inequivocabile, il proprio posto all’interno dell’intero sistema di istruzione.
Il quadro che ne emerge si desume dall’ultimo decreto attuativo, quello sulla valutazione del primo ciclo di istruzione e sugli esami di stato, dai quali risulta che:
– Scuola primaria: l’INVALSI svolge rilevazioni nazionali nelle classi seconda e quinta della scuola primaria e queste costituiscono parte integrante del processo di autovalutazione delle scuole. La prova di inglese viene svolta solo nelle classi quinte.
– Scuola media: l’INVALSI effettua rilevazioni nazionali in italiano, matematica e inglese nella classe terza della scuola media, che si svolgono nel mese di aprile e rappresentano requisito di ammissione all’esame conclusivo del primo ciclo di istruzione.
– Scuola superiore: l’INVALSI svolge prove nella classe seconda e quinta. Durante l’ultimo anno sottopone gli studenti a prove per l’accertamento dei livelli di apprendimento in inglese, italiano, matematica, i cui esiti vengono riportati alla prove d’esame in una specifica sezione del curriculum. Anche per gli Esami di Stato del secondo ciclo di istruzione la partecipazione alle prove INVALSI, predisposte durante l’ultimo anno, è requisito di ammissione per i candidati.
– Università: i risultati INVALSI possono essere tenuti in conto nell’accesso ai percorsi accademici.
La presentazione chiarisce come la valutazione periodica dei docenti, quale atto intermedio e finale del complesso e delicato processo dell’apprendimento, abbia ceduto completamente il posto alla valutazione delle prove standardizzate, quale più “qualificato” strumento di valutazione e “misurazione” degli studenti, delle scuole e degli insegnanti stessi, con il conseguente ed ovvio risultato di un netto ridimensionamento dell’intero valore della professione docente, alla quale viene sottratto uno degli elementi propri. Le rilevazioni nazionali costituiscono, così, parte integrante dell’autovalutazione delle scuole nell’istruzione primaria, introducendo nel processo di autovalutazione un elemento di valutazione esterno, risultante dalle prove INVALSI, che trasforma l’autovalutazione in una valutazione vera e propria della scuola e delle modalità di insegnamento dei docenti i quali, per adeguarsi alle prove standardizzate, come già ampiamente attestato in questi anni, dovranno conformare la propria didattica a quanto previsto dal format delle prove INVALSI. Lo stesso si può dire per gli Esami di terza media, che non hanno più le prove standardizzate come prova d’esame, ma non perché queste siano scomparse, bensì perché queste rappresentano requisito di ammissione all’esame conclusivo del primo ciclo di istruzione. Se non si tratta di un errore da parte ministeriale, ciò starebbe a significare che, nel caso in cui le prove INVALSI di uno studente risultassero “sbagliate”, l’alunno potrebbe non essere ammesso agli esami conclusivi, venendo meno il previsto requisito per l’ammissione agli stessi, pur riportando lo studente un’ottima valutazione complessiva. Ma anche il solo fatto di pensare di precludere l’accesso all’esame agli studenti che non si sono sottoposti alle prove, oppure a quei ragazzi i cui genitori, non condividendo l’impianto delle prove INVALSI, decidessero di non sottoporvi i propri figli, è un fatto gravissimo e senza precedenti, perché ciò significa che la valutazione del consiglio di classe non è considerata bastevole ai fini della valutazione finale. Arrivando alle scuole superiori, l’INVALSI non solo continua ad essere presente nelle classi seconde (quindi come orientamento per il biennio riguardo alla propria metodologia di insegnamento e conseguente corollario di giudizi per il triennio che lo studente sta per affrontare), ma la partecipazione alle prove INVALSI durante l’ultimo anno di corso è requisito di ammissione agli esami e gli esiti delle prove effettuate nell’ultimo anno vengono riportati alla prove d’esame in una specifica sezione del curriculum, il che significa, ovviamente, che faranno la differenza tra uno studente e un altro. Non solo, le Università possono costruire, su questi esiti, l’accesso “agevolato” alle facoltà per gli studenti standardizzati, cosa che non è possibile fare, invece, a partire dalla valutazione “semplice” dei docenti, conclusiva dell’intero ciclo di studi, scaturita dal percorso dello studente e dal voto della Commissione d’esame, che, evidentemente, non è giudicata utile ai fini dell’accesso all’ Università.
A questi aspetti si unisce, poi, la palese contraddizione nella quale incappa il dispositivo nel tentativo di far “quadrare” standardizzazione delle prove e individualizzazione della didattica, che scaturisce dall’adattamento delle prove INVALSI agli studenti con disabilità. Qui il cerchio si chiude, ma si apre un ulteriore e inquietante capitolo che riguarda, invece, la medicalizzazione della scuola e degli studenti che presentano caratteristiche “differenti” dalla media, ammesso che non rappresentino, invece, almeno percentualmente, la “normalità”. Al quadro già complesso della disabilità con certificazione, si aggiunge prepotentemente, così, la delicata questione dei DSA (e noi diciamo anche dei BES), perché se la standardizzazione delle prove presuppone uno studente standardizzato o standardizzabile, occorre misurare la differenza intercorrente tra questi e gli altri e, pertanto, risulta sempre più urgente “classificare” con precisione chirurgica in cosa, coloro che non rientrano nello standard, vi sfuggono. Così eserciti di discalculici, disgrafici, dislessici, disortografici, servono, in realtà a dettagliare, definire, descrivere sempre più minuziosamente i presunti disturbi dell’apprendimento, cercando di declinarli con una esattezza pseudo scientifica, al fine di dimostrare il modello inesistente dello studente “normale”.
Da tutto ciò emerge, poi, l’altro modello, quello inquietante del docente del terzo millennio, derubricato a illustratore di manuali per test, a somministratore di prove standardizzate, le uniche ad avere reale valore nella valutazione.
Questa riflessione ne comporta, però, un’altra, molto più ampia, con la quale i Cobas si misurano già da venti anni e riguarda le trasformazioni in atto del lavoro mentale nell’era della rivoluzione informatica, che non può non comportare una generale trasformazione della professione docente, che in questa crisi si inscrive a pieno titolo. Questa metamorfosi, però, al di là dall’essere indagata e compresa, nei decreti in questione viene semplicemente assunta e utilizzata per ridurre ulteriormente la qualità dell’insegnamento e, quindi, i livelli dell’apprendimento. Ciò che ne risulta è un quadro generale di provvedimenti rivolti alla scuola che non hanno neppure un vero obiettivo da perseguire, che non sia quello di tener dietro ad un generale impoverimento del patrimonio culturale, artistico e professionale, salvo poi demandare, del tutto demagogicamente, ad un decreto, qual è quello sulla Promozione, valorizzazione e sostegno alla cultura umanistica, al patrimonio, alla creatività, la rinascita dell’interesse per il grande patrimonio culturale e artistico italiano, a fronte del sostegno e della promozione di una cultura e di un’ istruzione insegnata per quiz.
1. Schema di decreto legislativo su
formazione iniziale e accesso ai ruoli di docente nella scuola secondaria (377)
Punti salienti
Laurea o diploma superiore per l’accesso alla carriera.
Acquisizione di crediti per l’insegnamento nelle discipline antro-psicopedagogiche e in quelle metodologiche didattiche.
Concorsi con cadenza biennale.
Tirocinio formativo triennale con contratto retribuito per i vincitori del concorso a carico dell’USR.
Al termine del primo anno di tirocinio conseguimento obbligatorio del diploma di specializzazione per l’insegnamento secondario, valido come titolo abilitante.
Nei 2 anni successivi percorso con tirocini formativi e la graduale assunzione di autonome funzioni docenti con possibilità di sostituzione dei docenti assenti. È prevista una valutazione intermedia e una valutazione finale del periodo di tirocinio.
Stipula di un contratto a tempo indeterminato (se la valutazione finale è positiva) secondo la procedura prevista dalla Legge n. 107 ai commi 63-85.
Possibilità per chi non ha partecipato al concorso o non lo ha superato, di iscriversi ugualmente al tirocinio formativo attivo, ma con le spese di frequenza al corso a completo carico degli interessati.
Costituisce titolo prioritario per l’iscrizione essere titolare di contratto triennale presso una scuola paritaria.
previsione di formazione in servizio per integrare le competenze disciplinari e pedagogiche.
Nuovo corso di tirocinio formativo attivo (TFA) per le classi di concorso e le tipologie di posto per le quali sono esaurite le graduatorie.
I vincitori del concorso già abilitati secondo la normativa previgente sono esonerati dal primo anno del percorso di specializzazione e se hanno i 36 mesi di servizio si iscrivono direttamente al terzo anno. Idem per i docenti di sostegno.
Chi è inserito nelle graduatorie di III fascia e non ha l’abilitazione è obbligato a conseguire il diploma di specializzazione (vedi art. 8), ma, conseguitolo, si iscrive direttamente al terzo anno.
Osservazioni
Il decreto prevede un sistema unitario e coordinato di formazione iniziale e accesso ai ruoli di docente della scuola secondaria di primo e secondo grado e di insegnante tecnico-pratico nella secondaria di secondo grado, che appare però farraginoso ed eccessivamente esteso nel tempo. Sono previsti, infatti, 5 anni di laurea + 3 anni di percorso formativo e, all’interno del percorso formativo, concorso + diploma di specializzazione [abilitazione] + valutazione intermedia + valutazione finale. Dunque, dopo la laurea magistrale, per accedere al primo anno del corso triennale (con sottoscrizione di un contratto di formazione retribuito per i vincitori del concorso a carico dell’USR) occorre superare un concorso, al termine del primo anno, si è obbligati ad acquisire il diploma di specializzazione [abilitazione], al termine del secondo bisogna aver superato la valutazione intermedia e, al terzo anno, si deve superare una valutazione finale, nella quale si tiene conto delle competenze in relazione agli aspetti metodologico-didattici e relazionali.
Per essere gli insegnanti peggio pagati d’Europa, il percorso ad ostacoli sembra francamente pretenzioso, anche perché, dai profili dei decreti attuativi, emerge l’immagine di un docente dalla funzione generica e indeterminata, somministratore di schede e prove standardizzate, naturalmente predisposte altrove.
Nel decreto, poi, compare un vero e proprio appalto del “precariato” alle scuole paritarie. Chi non ha superato o non ha partecipato al concorso, infatti, se ha stipulato un contratto triennale con una scuola paritaria, ha un titolo preferenziale per iscriversi, a proprie spese, al tirocinio formativo triennale di specializzazione. Come si sa i Cobas chiedono da sempre un percorso di laurea abilitante per l’insegnamento, con tesi ad indirizzo, ma da conseguire all’interno del biennio finale della laurea, dei quali uno dei due dovrebbe essere svolto come tirocinio presso un’istituzione scolastica, senza che questo confligga, naturalmente, con l’assorbimento del precariato presente, ad oggi, nelle varie graduatorie esistenti.
2. Schema di decreto legislativo su
inclusione scolastica degli studenti con disabilità (378)
Punti salienti
Quattro sono gli elementi fortemente negativi del decreto:
a) la permanenza obbligatoria dei docenti per 10 anni sul posto di sostegno;
b) l’innalzamento a 22 del numero di alunni per ogni classe con inserimento di studenti con disabilità, con il conseguente concreto taglio agli organici e dequalificazione dell’offerta formativa per gli alunni con disabilità o meno;
c) finanziamento specifico alle scuole private per l’inserimento degli studenti e studentesse con disabilità, senza che siano dettate specifiche regole per tale inserimento, con l’ovvio, implicito spostamento di parte degli studenti nelle scuole paritarie e rischio di istituzione di scuole e/o percorsi e/o classi differenziali;
d) mancanza di qualunque investimento di risorse per il personale ATA che viene utilizzato in attività di assistenza e inclusione.
Accanto a questi punti c’è poi l’istituzione di un Gruppo per l’inclusione territoriale (GIT), esterno alle scuole e collegato all’USR (composto da un Dirigente tecnico o un Dirigente scolastico che lo presiede, tre dirigenti scolastici dell’Ambito, due docenti, uno per infanzia e primo ciclo e uno per il secondo ciclo), che si occupa della proposta di sostegno, individuando il fabbisogno e quantificando i posti necessari, sottraendo, così, tale compito alla scuola.
Osservazioni
La riduzione dell’organico, determinata dall’aumento del numero di alunni per classe e dalla fuoriuscita degli studenti verso le scuole paritarie, comporterà una diminuzione del numero di docenti di sostegno, indotta anche dallo spostamento degli alunni disabili presso le scuole paritarie. A tale proposito l’art. 16 prevede l’utilizzazione sulle attività di sostegno anche dei docenti curriculari che sono su posto comune “su proposta” dei dirigenti scolastici, il che consiste, nei fatti, nella messa a disposizione di tutti i docenti sul sostegno e nella graduale fuoriuscita del docente di sostegno in copresenza, con monitoraggio della situazione da parte di istituti esterni (GIT e Osservatorio permanente). Anche qui presente l’INVALSI, che definisce gli indicatori per la valutazione della qualità dell’inclusione scolastica.
Dunque occorrerebbe:
ripristinare il passaggio su classe di concorso o posto non oltre i 5 anni di permanenza sul sostegno;
ristabilire il numero massimo di alunni per classe in non più di 20 alunni (d.P.R. n. 81/2009);
restituire agli organi collegiali e ai docenti di sostegno il proprio ruolo nella redazione dei documenti relativi agli studenti con disabilità;
rivedere la composizione del GIT inserendo, comunque, un adeguato numero di docenti di sostegno;
rivedere il concetto di riassegnazione alla scuola del docente per continuità, vincolandolo a parametri non confliggenti con il principio della trasparenza e legittimità del singolo ad acquisire il posto spettante.
3. Schema di decreto legislativo su
revisione istruzione professionale e raccordo con la formazione professionale (379)
Punti salienti
L’istruzione professionale viene ricondotta nel sistema dell’istruzione secondaria superiore.
Vi è una totale ridefinizione ordinamentale del percorso, in quanto si prevede una sua suddivisione in un biennio iniziale e in un triennio che si compone di singole annualità.
Lo studente viene indirizzato verso un percorso lavorativo.
Gli indirizzi vengono portati a 11 (si annulla il d.P.R. n. 87/2010).
Le classi possono essere articolate per gruppi.
Dai 15 anni si possono attivare contratti in apprendistato.
Pur all’interno dello stesso monte orario si ridefiniscono le discipline e si amplia l’orario delle attività laboratoriali.
Gli istituti professionali possono ampliare la propria offerta formativa e realizzare, a conclusione del biennio, un terzo anno, in cui conseguire le qualifiche professionali.
Al termine del terzo anno si può passare al quarto anno dei percorsi di istruzione professionale oppure passare al quarto anno dei percorsi di istruzione e formazione professionale presso le istituzioni formative accreditate.
Osservazioni
Elemento critico cogente è sicuramente l’articolazione delle classi per gruppi, perché questo prelude ad un insegnamento differenziato per gruppi di livello, con il quale si prefigura, sin dal primo anno, una divisione precoce tra studenti che proseguiranno nell’istruzione professionale statale, quelli che proseguiranno nella formazione professionale e gli altri che a 15 anni saranno inseriti direttamente nell’apprendistato.
Altrettanto pericoloso è quello della strutturazione di un percorso a senso unico, la Rete nazionale delle scuole professionali, che in raccordo con la formazione professionale, può portare dall’istruzione professionale alla formazione professionale, in un rapporto esclusivo dell’istruzione professionale statale con la formazione professionale, mentre manca qualunque tipo di raccordo con l’istruzione tecnica, verso la quale occorre prevedere, invece, passaggi utili alla ricollocazione di quegli studenti o studentesse che volessero trasferirsi nell’istruzione tecnica. Tale possibilità dovrebbe essere inserita nei compiti previsti dalla rete nazionale delle scuole professionali.
4. Schema di decreto legislativo su
sistema integrato di educazione e di istruzione da 0 a 6 anni (380)
Punti salienti e osservazioni
Il decreto si presenta come la piena realizzazione e attuazione del Sistema integrato di istruzione previsto dalla legge n. 62 del 2000, che detta le norme per la parità scolastica, cioè per la privatizzazione della scuola pubblica. L’art 1 della L. n. 62/2000, espressamente afferma: “Il sistema nazionale di istruzione, fermo restando quanto previsto dall’articolo 33, comma 2 della Costituzione, è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali”. Infatti, il Sistema integrato di educazione 0-6 anni, è costituito da:
a) servizi educativi per l’infanzia (nidi e micro nidi – servizi integrativi – sezioni primavera);
b) scuole dell’infanzia statali e paritarie.
Sono poi costituiti, da Regioni, USR ed EELL, i nuovi “Poli per l’infanzia” (da uno a tre per regione), che potranno insediarsi anche presso istituti comprensivi o direzioni didattiche, che dovrebbero essere laboratori permanenti di ricerca, innovazione, partecipazione e apertura al territorio e in questo modo il coordinamento pedagogico territoriale appare del tutto staccato dal lavoro effettuato dai docenti, mentre si delega ai Poli un’attività di ricerca e innovazione che dovrebbe essere oggetto di quotidiana applicazione. Anche in questo caso, comunque, le indicazioni appaiono petizioni di principio alle quali non fa seguito la certezza degli adempimenti, soprattutto per le disponibilità finanziarie, che dovrebbero essere a carico degli Enti Locali.
Nell’art. 8 si afferma che il Piano di azione nazionale definisce la destinazione delle risorse disponibili e che gli interventi previsti sono attuati in base al reale concorso da parte dell’ente al finanziamento, cioè da parte degli Enti locali che si trovano, però, come si sa, in difficoltà economiche e non possono, perciò, garantire la diffusione del servizio. Nelle funzioni e nei compiti degli enti Locali, c’è l’accreditamento dei soggetti privati per l’istituzione e la gestione dei servizi educativi, con l’ovvio risvolto che la gestione dei servizi sarà “appaltata”, appunto, al privato, infatti le famiglie avranno un “Buono nido” da poter spendere nei accreditati o comunali. Non è un caso che le famiglie dovranno partecipare economicamente alle spese di funzionamento dei servizi educativi per l’infanzia, sia pubblici che privati accreditati (salvo la riduzione delle spese presentando l’ISEE o l’esenzione in caso di particolare disagio economico). La soglia massima di partecipazione economica delle famiglie sarà definita con intesa in sede di Conferenza unificata.
5. Schema di decreto legislativo su
diritto allo studio e potenziamento della carta dello studente (381)
Punti salienti
Il decreto individua e definisce le modalità delle prestazioni in materia di diritto alla studio e gli interventi degli Enti locali in relazione ai servizi erogati per il diritto allo studio e assegna ali Enti locali, nei limiti delle disponibilità, gli interventi in materia di trasporti, servizi di mensa fornitura di libri di testo e di materiale didattico indispensabili negli specifici corsi di studio, di servizi per gli alunni e studenti ricoverati in ospedali (ai quali è assicurato il diritto allo studio) e per l’istruzione domiciliare (art. 2).
Gli Enti locali possono disporre anche la gratuità dei servizi e si prevede, dall’a.s. 2018/2019, la gratuità delle tasse scolastiche per gli studenti della secondaria di secondo grado.
Si istituisce un Fondo unico per il welfare dello studente per contrastare la dispersione scolastica (con corrispondente riduzione dei fondi di cui al comma 202, art 1, L. n. 107/2015) e la Conferenza nazionale per il diritto allo studio, che monitora l’attuazione del decreto, esprime pareri, elabora proposte, redige un rapporto ogni tre anni in materia di diritto allo studio, avanza proposte di potenziamento della Carta e l’integrazione di ulteriori agevolazioni a livello delle singole regioni, autorizza accordi interistituzionali con soggetti pubblici e privati per erogare ulteriori benefici per il diritto allo studio.
Osservazioni
Il decreto presenta vaghe petizioni di principio non suffragate da interventi diretti e da stanziamenti conseguenti, cosa che rende il richiamo al diritto allo studio, pura e vuota retorica. Si parla di effettività del diritto allo studio e non si entra minimamente nel merito di una seria analisi di quali dovrebbero essere gli interventi utili alla rimozione degli ostacoli di ordine economico, sociale e culturale che impediscono di poter usufruire pienamente di tale diritto. L’intervento si limita a demandare agli Enti Locali gli interventi in materia di trasporti, servizi di mensa e fornitura di libri di testo, fingendo di non sapere che, spesso, proprio i territori che non hanno Enti locali in grado di sostenere spese per i servizi, sono quelli più problematici da un punto di visto della scolarità. Non a caso manca qualunque riferimento all’educazione degli adulti, nonché a quella in carcere (osservatorio tristemente privilegiato per comprendere quali sono, ancora oggi, i territori e, all’interno di questi, i sub territori dell’emarginazione e della privazione del diritto all’apprendere) nonostante in questi anni si sia posta in evidenza l’importanza dell’istruzione e della cultura nella costruzione di nuove “identità”, così come declinato, peraltro, nel documento finale degli Stati Generali dell’esecuzione penale e nel Protocollo d’intesa MIUR-MG. Ben altro dovrebbe essere l’intervento non solo in direzione del diritto allo studio, ma di un più pregnante e attuale diritto a comprendere, come garanzia dei diritti democratici e dell’esercizio della cittadinanza attiva, che renda gli studenti e le studentesse, cittadini capaci di decifrare il mondo nel quale spesso si trovano senza adeguati strumenti. Senza l’identificazione di una tale processo e percorso, non esiste neppure successo scolastico.
Dunque occorrerebbe:
– prevedere stanziamenti ulteriori per l’attuazione del diritto allo studio, assicurando le dovute prestazioni degli EELL in tutte le regioni e non solo in alcune (trasporti, mense, mobilità);
– inserire la scuola in carcere come percorso riconosciuto per la reale esigibilità del diritto allo studio in ambito carcerario;
– integrare la Conferenza nazionale per il diritto allo studio, che ha al proprio interno rappresentanti dei genitori e docenti, ma nessun rappresentante delle istituzioni scolastiche che non sia rappresentante del MIUR, così come manca qualunque raccordo con la realtà territoriali,. Tutto ciò rende la Conferenza avulsa dai reali contesti territoriali in cui dovrebbe calarsi un intervento teso ad assicurare il diritto allo studio, come valore perseguito nella concretezza delle azioni e non semplicemente come enunciazione di astratti e retorici principi.
6. Schema di decreto legislativo su
promozione della cultura umanistica, valorizzazione del patrimonio e sostegno alla creatività (382)
Punti salienti
Lo schema del Decreto afferma che compito del sistema nazionale d’istruzione e formazione è quello di promuovere lo studio, la conoscenza e la pratica delle arti, quale requisito fondamentale del curricolo. Le istituzioni scolastiche sostengono lo sviluppo della creatività al fine di assicurare l’acquisizione delle competenze relative alla conoscenza del patrimonio culturale e del valore del Made in ltaly, provvedono ad inserire, nel Piano triennale dell’offerta formativa, attività teoriche e pratiche, anche con modalità laboratoriale, di studio, approfondimento, produzione, fruizione e scambio coerenti con i “temi della creatività”. Con cadenza triennale è adottato il Piano delle Arti, che sostiene le istituzioni scolastiche e le reti di scuola per realizzare un modello organizzativo quale laboratorio permanente di pratica. Attraverso l’INVALSI, il MIUR definisce indicatori per la valutazione dei processi.
Nella scuola dell’infanzia e nella primaria è promosso lo svolgimento di attività dedicate allo sviluppo dei temi della creatività ed in particolare alla pratica musicale, attraverso l’impiego di docenti anche di altro grado scolastico in possesso di specifici requisiti definiti da un apposito decreto ministeriale.
Nella scuola media si realizzano attività connesse ai temi della creatività in continuità con i percorsi di apprendimento della scuola primaria.
Promozione della pratica artistica e musicale nella scuola secondaria di secondo grado. Le scuole superiori possono organizzare attività per la conoscenza della storia dell’arte e del patrimonio culturale e la pratica delle arti e della musica sviluppando uno o più temi della creatività.
I licei musicali e coreutici possono rimodulare il monte orario e prevedere specifici adattamenti del piano di studi per attuare i progetti previsti dal Piano triennale dell’offerta formativa.
Le istituzioni scolastiche del primo ciclo di istruzione del medesimo ambito territoriale possono costituirsi in poli a orientamento artistico e performativo, previo riconoscimento da parte dell’Ufficio scolastico regionale.
Osservazioni
Il decreto è minato al suo fondo dall’impianto generale che emerge dal complesso dei decreti attuativi, che ci consegna una scuola asservita alla dequalificante standardizzazione e misurazione delle competenze, come unico orizzonte “culturale”. Nulla di più lontano dalla cultura umanistica cui il decreto dice di rivolgersi e che vorrebbe trasmettere alle nuove generazioni, da quel modello culturale umanistico-rinascimentale che ancora permette all’Italia di essere riconosciuta nel mondo e che aveva al suo centro la pienezza di un individuo capace di autonomia critica e di senso storico, dovuto alla sua altissima cultura.
Questo decreto appare, invece, caratterizzato dalla totale nebulosità riguardo alla reale attuazione di quanto previsto e dalla genericità di vaghe buone intenzioni rispetto alla promozione della cultura umanistica, al patrimonio, alla creatività. Anche se viene previsto che una dotazione pari al cinque per cento del contingente dei posti per il potenziamento dell’offerta formativa sia destinato alla promozione dei temi della creatività (art. 17), non si dice nulla sull’obbligo, sui tempi e sulle modalità attraverso i quali le scuole dovranno provvedere ad inserire progetti e/o attività di coordinamento, per la promozione delle attività previste la nuova legge, né sull’integrazione tra vecchi e nuovi curricoli. Tale genericità non ci meraviglia, visti i presupposti dai quali parte la “nuova” scuola.
7. Schema di decreto legislativo su
valutazione e certificazione competenze nel primo ciclo ed esami di Stato (384)
Punti salienti
Il Decreto si fonda sulla valutazione e certificazione delle competenze.
L’istituzione scolastica attesta lo sviluppo delle competenze e partecipa alle rilevazioni internazionali e nazionali dei livelli di apprendimento.
La valutazione è effettuata collegialmente dai docenti del consiglio di classe ed è espressa in decimi, ma è integrata dalla descrizione del processo di apprendimento.
Nella scuola primaria la valutazione del comportamento viene espressa tramite un giudizio descrittivo, per la scuola media viene espressa in decimi.
Il resto, oltre ai criteri di ammissione alle classi successive, allo svolgimento degli esami, e alla composizione delle singole commissioni, riguarda essenzialmente le rilevazioni nazionali dell’INVALSI in tutti gli ordini e gradi di scuola, compresi disabili e DSA, e l’ingresso dell’Alternanza scuola-lavoro come materia d’esame.
Osservazioni
Tutto chiarisce, come detto all’inizio, che le prove standardizzate stanno prendendo il posto della valutazione dei docenti, con il conseguente ed ovvio ridimensionamento del loro ruolo; i docenti sono semplici somministratori di prove standardizzate, insegnanti di quiz, le uniche prove ad avere reale valore nella valutazione. Ma ciò è da legare alla trasformazione della funzione docente nell’era della rivoluzione informatica.
Un altro e diverso capitolo di cui non si è parlato e che è, invece, di importanza rilevante, è l’ingresso prepotente dell’Alternanza scuola-lavoro nell’esame di maturità. Lo svolgimento dell’attività di alternanza scuola-lavoro nel secondo biennio e nell’ultimo anno di corso è, infatti, come le prove INVALSI, requisito di ammissione agli esami e nell’ambito del colloquio il candidato è tenuto ad esporre, attraverso un elaborato multimediale o una relazione, l’esperienza di alternanza scuola-lavoro.
Dunque anche per l’Alternanza accade quanto abbiamo già detto per l’INVALSI, viene precluso l’accesso all’esame agli studenti che non dovessero sottoporsi alle 200 o 400 ore obbligatorie di alternanza, il che ripropone lo stesso problema: la valutazione del consiglio di classe non è considerata sufficiente ai fini della valutazione finale, a meno che questa non contenga come elementi ulteriori, le prove standardizzate e l’esperienza lavorativa, le uniche che attestano la validità di un percorso scolastico e alle quali le discipline ordinamentali diventano subalterne. Non a caso l’alternanza viene prima considerata didattica a tutti gli effetti e poi, pur non essendo una disciplina, viene fatta rientrare nel colloquio d’esame riconoscendole, perciò, pienamente, tale status. Tutto ciò, presente già nella Legge n. 107/2015, compie con il decreto in questione un ulteriore passo in avanti, esaltando la subordinazione della scuola alla logica di una concezione utilitaristica dell’istruzione, nella quale si riduce il tempo dello studio e si amplia quello dell’addestramento professionale, nel falso mito di una maggiore spendibilità dei titoli in ambito lavorativo.
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