Formare significa dare una forma a qualcosa che non l’aveva. Nella “buona scuola” è una leva per scardinare e destrutturare la forma mentis preesistente dei docenti, sostituendovene una diversa che non è affatto scontato sia da preferire. In parole povere, una raffinata tecnica di lavaggio del cervello, una “riforma del pensiero” secondo la definizione dello psichiatra Robert Jay Lifton.
Il movente risiede nel cambio di paradigma che la L. 107/2015 esprime, a coronamento di vent’anni di legislazione coerente in questo “verso”. Poiché cambia la funzione stessa della scuola, devono cambiare organizzazione e procedure.
Nel “vecchio” paradigma, di matrice illuminista, la scuola educava cittadini, soggetti caratterizzati dall’autonomia di giudizio. Che si attingeva attraverso l’apprendimento delle discipline, saperi ereditati, dotati ciascuno di un proprio lessico e di una propria sintassi. Le discipline divengono, invece, orpelli inutili, ostativi, potenzialmente pericolosi, nel “nuovo” paradigma neoliberista, che non ammette altro lessico, altra sintassi, altro sistema di valori, se non quelli che sovrintendono alla produzione del profitto e alla crescita economica; alla scuola si chiede di addestrare lavoratori/consumatori da inserire nel circuito produttivo governato dalla logica competitiva del “libero” mercato.
Non formazione, dunque, ma metamorfosi. Che però – nella psiche così come nei sistemi organici – per l’organismo che la vive non è un processo traumatico, che implica quote di violenza tanto più elevate quanto più intimo è il rapporto in atto con la forma da tradire.
Ecco perché, rispetto alla figura dell’insegnante, la formazione diviene “obbligatoria, permanente e strutturale”: non un diritto che risponde a bisogni percepiti dal docente, bensì coercizione a soddisfare bisogni ignoti ed estranei. Quali lo si capisce dai contenuti della piattaforma che, con buona pace della finta autonomia dei Collegi docenti, sono imposti dalla legge. Direttamente, come obiettivi formativi per gli scolari, di cui il singolo docente e ciascuna istituzione scolastica diventano responsabili secondo il principio della rendicontazione. Ma, soprattutto, attraverso il dispositivo della valutazione, cuore propulsivo della metamorfosi. Ai sensi dei commi 14 e 124, entrano a far parte del nuovo Piano Triennale dell’Offerta Formativa i Piani di miglioramento previsti dal DPR 80/2013. Questi recepiscono le osservazioni formulate dall’INVALSI sul Rapporto di Autovalutazione (RAV), predisposto dall’INVALSI, ed evidenziano le criticità su cui, sempre a giudizio dell’INVALSI, intervenire, con la formazione.
Il nesso è cruciale. L’obbligo alla formazione presenta infatti un limite, non può coartare il convincimento interiore, e ciò rischia di neutralizzare l’efficacia di qualsiasi intervento. La valutazione, con l’azione combinata del timore per la censura e della lusinga del merito, carpisce l’adesione interiore del soggetto.
E nella L. 107 la posta in gioco è altissima poiché i docenti, collocati negli ambiti territoriali, sono succubi della chiamata diretta da parte dei DS, vincolati a loro volta contrattualmente agli obiettivi stabiliti nei Piani di miglioramento. Tutti dovranno far propri valori, giudizi e metodi dell’INVALSI non solo per ambire alla carriera e a forme di remunerazione aggiuntiva ma anche semplicemente per scongiurare i gravissimi rischi che in prospettiva potrebbero estromettere dalla scuola: 1) ricevere gli incarichi residuali, logisticamente disagiati, conferiti dagli USP; 2) essere privati della titolarità di una cattedra grazie alle nuove mansioni di “potenziamento”.
Dalla lettura combinata della L. 107 e delle rubriche del RAV emergono quattro portanti della formazione: competenze/standardizzazione, informatica, inclusione, coordinamento. Tutte convergono nel subordinare la scuola alle richieste del sistema produttivo.
Competenze che destrutturano le discipline
Di richiami alle competenze la L. 107 è disseminata; in particolare dal comma 7, sulle linee guida dell’offerta formativa, si vede quanto l’equilibrio penda a loro favore e confini le conoscenze all’irrilevanza. La didattica per competenze aggredisce gli statuti delle discipline; segmenta ed isola i saperi dalla loro cornice per funzionalizzarli ad una operatività immediata ed estranea. Ad esempio, si studia una poesia non per il suo intrinseco potenziale cognitivo ma al fine di produrre testi analoghi o di adottarne sequenze o figure per uno spot pubblicitario. Le competenze, diversamente dalle conoscenze, si esprimono in un saper fare definito a priori, e ciò permette di approntare una piattaforma standardizzata che misuri il livello di adeguamento della prestazione, cosa impraticabile nella didattica per discipline, dove le ricadute dell’apprendimento restano libere ossia personali, indeterminate, imprevedibili, incomparabili. Sul grado di adeguamento della prestazione allo standard si attiva la competizione, che sfocia nei ranking e rating di scolari, insegnanti, scuole, territori. Ad agenzie specializzate – nella fattispecie l’INVALSI – è affidato l’incarico di elaborare il quadro di riferimento che esprima, per il sistema scolastico, lo stato dell’arte dell’istruzione in base alle richieste dei decisori politici e degli altri “portatori di interesse” presenti sul mercato.
Le maglie strette della scuola digitale
La spinta all’uso didattico delle tecnologie dell’informazione prepara gli scolari ai processi produttivi automatizzati, con mansioni a carattere esecutivo e flessibili, non ancorate a professionalità consolidate. I registri elettronici e altri strumenti documentali digitali/telematici, imbrigliano la discrezionalità dell’insegnante entro modelli e griglie predefinite e rubriche di valutazione da recepire e compilare in maniera acritica; selezionano al tempo stesso le informazioni da fornire all’“utenza” guidandone così le scelte in una falsa trasparenza. La L. 107 prevede l’adozione di un Piano Nazionale per la Scuola Digitale, entrato in vigore col DM n. 851/2015. Col decreto n. 435/2015, antecedente alla L. 107, il MIUR aveva già istituito la figura dell’animatore digitale – stanziando 850.000 euro – per favorire il processo di digitalizzazione delle scuole sul piano amministrativo e didattico. Il RAV assegna l’eccellenza alla scuola che “promuove l’utilizzo di modalità didattiche innovative” e in cui gli scolari “utilizzano le nuove tecnologie”.
Inclusione apparente, emarginazione reale
Anche la didattica “inclusiva” che riconosce i cosiddetti “bisogni educativi speciali”, concorre a sabotare l’apprendimento delle discipline. Personalizzando gli obiettivi con una delega in parte meramente burocratica in parte medicalizzante, un numero sempre più alto di scolari viene di fatto esonerato dall’orizzonte di una conoscenza condivisa. Di ciascun discente si ratificano piuttosto le iniziali diseguaglianze di condizione e di attitudini. Si include in apparenza, si isola ed emargina nella sostanza. Nella L. 107 c’è solo qualche accenno ma nel RAV una sezione apposita s’intitola emblematicamente “inclusione e differenziazione”; l’eccellenza viene riconosciuta se “la differenziazione dei percorsi didattici in funzione dei bisogni educativi degli studenti è ben strutturata a livello di scuola” e se “nelle attività di inclusione sono attivamente coinvolti diversi soggetti”, in primis i docenti curriculari. Un disegno di legge (a firma anche del sottosegretario Faraone) prevede l’“obbligo di formazione iniziale e in servizio per i dirigenti e per i docenti sugli aspetti pedagogico-didattici e organizzativi all’inclusione scolastica”; e un’altra proposta, “ruoli per il sostegno” con percorso esclusivo di accesso fanno della figura uno specialista dell’inclusione, recidendo il legame con una disciplina.
Coordinare al controllo
La formazione per i ruoli di “staff” consolida l’assetto piramidale dell’organizzazione scolastica, distribuendo i livelli di controllo e promuovendo sotto l’etichetta di “coordinamento” l’omologazione delle prassi e dei valori. L’aumento dei collaboratori del DS fino al 10% dell’organico è previsto dal comma 83; il comma 129, per il premio di merito, tra i criteri declinabili dal Comitato per la valutazione dei docenti elenca le “responsabilità assunte nel coordinamento organizzativo e didattico e nella formazione del personale”. Nella corrispondente sezione del RAV (3.5) si attribuisce la valutazione minima se “non sono presenti forme di controllo o monitoraggio delle azioni”, massima se invece “la scuola utilizza forme di controllo strategico o di monitoraggio dell’azione, che permettono di riorientare le strategie e riprogettare le azioni”.
Un simile congegno totalitario non ammette accomodamenti, solo il rifiuto categorico, di pensiero e di azione. I Collegi docenti, respingendo le pressioni dall’alto e riaffermando le prerogative di vera autonomia nelle scelte formative, possono ancora fermare e invertire la deriva; anche il singolo docente può farlo, esercitando l’opzione metodologica di gruppi minoritari ex art. 3 del Dpr 275/99, recepita dalla legge 107 al comma 14.
Non certo per vezzo intellettualistico, ma perché dal modo in cui la scuola tratta le diseguaglianze – contrastandole o, viceversa, blandendole e coltivandole – dipende la sorte della democrazia, urge spezzare le catene di sudditanza al neoliberismo. E questo, a scuola, lo si fa riportando al centro della didattica la conoscenza e l’autonomia delle discipline in cui essa si è storicamente organizzata. Restituire il primato ai linguaggi disciplinari significa anche recuperare la dimensione civile dell’educazione, riconnettere l’esperienza individuale a quella collettiva, il solo modo in cui l’individuo può realizzarsi in modo libero e consapevole.
Commenti recenti