photo credits: Antoine Dautry
Quest’anno ho insegnato matematica in una seconda di scuola primaria, classe destinataria delle prove Invalsi. Ho sempre cercato di contrastare questi test in ogni modo, dallo sciopero all’analisi critica, all’obiezione di coscienza. Penso che la loro introduzione abbia fatto molti danni alla “cultura scolastica”, spingendo molti insegnanti ad impoverire la propria didattica, fornendo ad altri un alibi per continuare a farlo, in ogni caso standardizzardo l’insegnamento per renderlo funzionale alla preparazione dei test.
La testificazione permea ormai la società, decide gli accessi universitari, impregna orrendamente i manuali scolastici e spesso viene usata nella selezione del personale. Se il compito del pensiero critico rimane quello di operare un’analisi priva di indulgenza della reificazione connaturata in queste prove, quello mio in classe non può più limitarsi ad un aggiramento, all’obiezione di coscienza o allo sciopero. Se il test è la forma della didattica conformista del XXI secolo, il mio compito sarà quello di provare a costruire una didattica critica di questi test, che aiuti gli allievi e le allieve a comprenderne i limiti e a difendersene in futuro.
Via le risposte
Come ho proceduto? Ho scaricato l’opera omnia dell’Invalsi di matematica per la seconda classe. I quesiti non sono diversi da una parte di quelli che troviamo nei libri di testo o che prepariamo noi stessi. La critica didattica all’Invalsi non si appunta quasi mai su quel singolo problema, ma sulle modalità di lavoro e sulle procedure di risoluzione prescritte (oltre alla ingenua pretesa di valutare, attraverso quelle risposte, allieve, docenti e tutto il sistema scuola nazionale). L’Invalsi chiede individualismo, rapidità, fornisce risposte predeterminate, non accetta soluzioni che escano dagli schemi previsti, esclude a priori la discussione e ogni accezione dialogica, interdice le domande. Incardinato in questi vincoli metodologici, qualsiasi esercizio di matematica cambia aspetto e diventa un percorso di addestramento alla rapidità e al ruolo esecutivo, una celebrazione dell’approccio individuale, un attacco al pensiero critico o divergente. Allora ho pensato di proporre quelle stesse prove scardinando i principi-guida dell’Invalsi.
Il primo passo è stato quasi rituale. Formati vari gruppi ho consegnato ad ognuno un quesito, privato delle risposte predeterminate, e ho chiesto di leggerlo insieme, di discuterlo, di formulare le ipotesi di risposta. Dopo potevano vedere la risoluzione proposta dai compagni e alla fine, con calma, se ne è discusso insieme. La risoluzione cooperativa dei quesiti e la possibilità di confrontarsi mi parevano essenziali per vincere l’idea di un sapere che si costruisce da soli, in lotta contro il tempo, in isolamento o magari in competizione con le compagne e i compagni. L’esperimento ha funzionato bene. L’abbiamo ripetuto alcune volte, facendo emergere dalla riflessione dei bambini la risposta o le risposte, magari anche errate, ma formulata dal loro lavoro intellettuale e dal confronto e sostenute dalla loro argomentazione, e non prescelte tra quelle fornite precotte.
Come secondo passo mi sono concentrato sulle risposte. L’Invalsi generalmente limita le possibilità di risposta a quattro, fornendole già preconfezionate. È evidente che per chi vuole contare delle risposte e trarre da esse delle percentuali statistiche, avere quattro tipologie è utile: semplifica, incasella forzatamente i ragionamenti e quindi illude gli elaboratori dei dati di avere a disposizione quantificazioni corrispondenti alla realtà di pensiero di chi ha fatto il test. Invece, appena si tolgono queste quattro uscite predeterminate, ci si accorge di due elementi cruciali: da una parte il pensiero risolutore si muove in brughiere ben più sterminate e contraddittorie di quelle ipotizzate dai signori Invalsi; dall’altra, le risposte predeterminate – soprattutto per i più piccoli – costituiscono un invito potente e nefasto ad esautorare il proprio ragionamento.
Così, per fare i conti con queste riflessioni, ho provato a seguire due principi in apparenza contraddittori.
Da una parte ho iniziato ad insegnare cosa sono le prove a risposte multiple, organizzando però le attività non in funzione di un’astratta e per me inutile raccolta dei dati, ma tarando le difficoltà sulle capacità dei bambini della mia classe e sulla opportunità di presentare le difficoltà legate a questa forma di esercizio in maniera progressiva e razionale didatticamente, cioè facendo fare semplici prove non invalsiane in cui le risposte tra cui scegliere fossero due, univoche, funzionali all’apprendimento progressivo del format e non all’estrazione di dati “in vivo”.
Dall’altra parte ho usato i quesiti dell’archivio Invalsi, ma togliendo quasi sempre le risposte. L’effetto è conosciuto: si moltiplicano le tipologie di risposta, mostrando quanto varie siano le strade scelte per la risoluzione dai bambini e quanto poco incasellabili a priori siano le tipologie di errore. Certo, non lo si può fare ogni giorno, la fatica della correzione e della ristrutturazione della didattica sulla base degli errori sarebbe improba.
Via anche le domande
Poi però ho fatto fatica a trattenermi. Perché non togliere anche le domandine predeterminate? Anche in questo caso colpisce subito il piacevolissimo senso di apertura e la sensazione di entrare in terre inesplorate. Infatti in seconda classe il contratto didattico è già molto forte, ma le forme attraverso le quali ottemperarvi sono ancora legate ai limitati protocolli sperimentati nella didattica. Ad esempio: se assegno un “problema” sanno che solitamente formulare un’operazione risulta apprezzato dai maestri, quindi bambine e bambini cercano di soddisfare questa predilezione dei docenti anche a prescindere dalla necessità. Ma se si lascia nell’indistinto la richiesta, la situazione problematica si ricarica inaspettatamente di possibili interpretazioni, e le bambine e i bambini sono ricondotti indietro al processo di comprensione. E le informazioni da trarre dalle situazioni prospettate crescono in maniera esponenziale. Insomma, più faticoso, spiazzante, ma pieno di stimoli.
Una prova consisteva nel presentare quattro coppie di figure geometriche, una dentro l’altra, da scegliere solo una di esse, in base alla coerenza della descrizione. Presentando solo le coppie e chiedendo loro una descrizione si ricostruisce la ricchezza del pensiero infantile. Uno di questi disegni presentava un rettangolo e al suo interno un quadrato (che è anche un rombo) ruotato di circa 30°. Ho chiesto di colorare di verde il rettangolo e poi ho chiesto di descrivere il tutto. Chi chiama la figura interna “rombo”, chi la chiama “quadrato”, chi “triangolo”, confondendosi lessicalmente; ma comunicare la rotazione è il vero problema. Qui si attivano risorse approssimative, ma di una certa efficacia: “un quadrato a rovescio bianco”, “c’è un rettangolo con un quadrato storto sembra una chiave inglese”, “il rombo è leggermente storto e i lati sono seghettati [ho dovuto prendere atto che sulla fotocopia i segmenti del quadrato-rombo erano irregolari, e che il piccolo osservatore ha utilizzato ciò che aveva imparato nello studio delle foglie per segnalare questa particolarità; particolarità trascurabile solo se da adulti selezioniamo le risposte preventivamente in base al nostro concetto di geometria ben formato, mentre chi sta apprendendo non sa se questo aspetto sia o no da ritenersi trascurabile – magari potrebbe poi risultare uno dei fondamenti di una geometria seghettata, solo parzialmente euclidea], “c’è un rettangolo con dentro un rombo (quadrato storto)”, “un triangolo [confusione di nomenclature con l’altra figura] meso male detro a un retangolo verde e groso”, “e dentro c’è un quadrato bianco e storto”, “sembra una macchina fotografica con un rombo con un prato d’erba”.
Qui il pensiero infantile riacquista la sua complessità e parziale irriducibilità allo sguardo computazionale dello statistico. Tra questi citati tutti hanno chiaro il prerequisito “dentro”, la rotazione viene percepita da molti, alcuni trovano un modo per comunicarla, alcuni sottolineano la differente dimensione, alcuni attivano paragoni con la realtà per descrivere meglio. Anche un quiz invalsi, tolto dalla sua routine e dalla sua gabbia metodologica, può trasformarsi in avventura.
Ma gli interventi attuabili sono veramente tanti. Ad esempio: le prove richiedono l’uso della biro (credo nera); nel nostro percorso ho lasciato usare le matite perché lavoriamo ancora con quelle, e non ho interdetto l’uso dei colori. Fare disegni spesso serve alla risoluzione, e colorarli serve al proprio benessere, al piacere di fare un bel lavoro. Ma a volte per risolvere alcuni quesiti – o per comprendere situazioni – è anche utile usare materiali – cubetti, stecchini, monete, disegnare e ritagliare… Ciò che per l’Invalsi può solo risultare una perdita di tempo o un pericoloso inquinamento del test, per la nostra didattica si rivela uno strumento indispensabile alla cui utilità cerchiamo ogni giorno di educare le bambine e i bambini.
Affrontare un quesito con la possibilità di “costruire” le domande e le risposte facendo uso di ciò che veniva ritenuto utile è la strada principale dell’insegnamento.
Nove suggerimenti
Parafrasando un grande del passato, potrei affermare che quando la forma del test con risposte prefissate prende il sopravvento e diventa la didattica di Stato e la via maestra all’apprendimento, allora lo stesso modo di pensare dei bambini (e dei loro insegnanti) tende a degenerare, e si comincia ad applicare questa formula anche nel lavoro intellettuale in cui non sarebbe richiesto il procedimento tipico dei test. L’approccio efficace nei test diventa la matrice del pensiero in generale. Il pensiero perde così la sua autonomia, anche se si crede addirittura più efficace ed oggettivo; esso perde la capacità (che non è una funzione naturale dell’intelletto, ma prende forma storicamente) di guardare la realtà e i problemi senza rinunciare alla libertà del proprio sguardo.
Chiudo proponendo un contro-protocollo del non-somministratore Invalsi, per far crescere anticorpi nelle giovani menti.
1. Togliere le risposte.
2. Togliere le domande.
3. Lavorare anche a coppie e in piccoli gruppi, per sperimentare il vantaggio del lavoro cooperativo.
4. Discutere ogni volta che si riesce: prima, durante e dopo la risoluzione.
5. Lasciare possibilmente tutto il tempo necessario.
6. Se si affrontano le risposte prefissate multiple: valorizzare le risposte non previste.
7. Incoraggiare il disegno, sia quello funzionale alla risoluzione dei quesiti, sia quello funzionale al piacere di disegnare.
8. Suggerire o valorizzare le simulazioni, l’uso degli oggetti, le teatralizzazioni che possono aiutare a trovare le risoluzioni.
9. …e, per le maestre e i maestri, scioperare il giorno della prova.
[Da https://www.quandosuonalacampanella.it]
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