Piccole patrie

Autonomia differenziata e regionalizzazione della scuola: le ragioni per continuare ad opporsi

photo credits: Stefano Corso on Flickr

Ha lavorato carsicamente e avvolto per troppo tempo nel silenzio generale, il progetto dell’autonomia differenziata, che rischia di essere approvato a ogni Consiglio dei Ministri; se dovesse passare scardinerebbe i principi di cittadinanza e il funzionamento non solo del sistema d’istruzione nazionale ma anche di altri servizi pubblici, dalla sanità alle infrastrutture, dai porti agli aeroporti, e poi strade e autostrade, fondi pluriennali dell’università. Insomma verrebbe meno la tenuta del sistema-Paese emarginando i più vulnerabili e indifesi.

 

La secessione dei ricchi

Come è noto, la riforma del titolo V della Costituzione del 2001 ha subito una rapida accelerazione con i referendum consultivi delle Regioni Lombardia e Veneto fino agli accordi di preintesa firmati tra il sottosegretario Bressa (governo Gentiloni) e i Presidenti delle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna e il tema dell’Autonomia differenziata è stata inserita nell’agenda dei governi Conte I e Conte II. Tutto il percorso è stato rigorosamente top secret e soltanto le ricostruzioni preoccupate di docenti come Massimo Villone e Gianfranco Viesti e di giornalisti meridionalisti come Marco Esposito sono finalmente uscite dal circuito chiuso della ricerca per diventare strumenti di controinformazione, illustrandone la valenza politica di un progetto disgregatore di tale portata, utile a innescare quel dibattito pubblico che i media avrebbero accuratamente evitato.

Non a caso si parla di secessione dei ricchi: cioè di secessione del Nord dal resto d’Italia, in ragione dell’inaccettabile “teorema meridionale” (così lo denomina G. Viesti nel suo libro La secessione dei ricchi, Laterza, 2019), un pregiudizio trasformato in assioma economico-politico, secondo cui le Regioni del Sud, corrotte e incapaci di mettere a profitto le risorse loro destinate, frenerebbero la “locomotiva” produttiva del paese, cioè le Regioni del Nord, che per questo chiedono di diventare, in pratica, Regioni a statuto speciale. Si avrebbe, dunque, un’Italia di “piccole patrie” (M. Villone, Italia, divisa e diseguale, Editoriale scientifica, 2019), ciascuna con la pretesa di costituire un “popolo sovrano” entro i propri angusti confini, che tratterrebbe il residuo fiscale ed esigerebbe quote di finanziamenti pubblici calcolate sulla capacità contributiva dei residenti anziché tenendo presenti le caratteristiche demografiche e ambientali dei loro territori.

Chi più ha, insomma, avrebbe ancora di più; la ricchezza della Regione sarebbe ritenuta di per sè un segno di buona amministrazione e promettente sviluppo. Infatti, se ogni Regione trattenesse per sé il 90% del gettito erariale riscosso sul proprio territorio, così come ha deliberato il Veneto nel referendum del 2 ottobre 2017, sarebbe la fine della scuola statale, della sanità pubblica e di qualsiasi politica su infrastrutture. Non potendo fare deficit, lo Stato ridurrebbe le risorse e i servizi per le Regioni più povere; ecco quindi che senza fondi da destinare alla perequazione fra le Regioni più ricche e meno ricche, lo storico divario tra Nord e Sud si acuirebbe.

 

Le ricadute sull’istruzione

L’autonomia regionale differenziata porterebbe non solo alla frantumazione del sistema unitario di istruzione, minando nel contempo alla radice l’uguaglianza dei diritti, il diritto all’istruzione e la libertà di insegnamento ma subordinerebbe l’organizzazione scolastica alle scelte politiche, condizionando gli organi collegiali. Infatti, tutte le materie che riguardano la scuola, e oggi di competenza esclusiva dello Stato, passerebbero alle Regioni, con il trasferimento delle risorse umane e finanziarie. Anche i percorsi PCTO, di Istruzione degli Adulti e l’Istruzione Tecnica Superiore sarebbero decisi a livello territoriale, con progetti sempre più legati alle esigenze produttive locali, così come sarebbero decisi a livello territoriale gli indicatori per la valutazione degli studenti. Anche le procedure concorsuali avrebbero ruolo regionale e più difficili diventerebbero i trasferimenti interregionali.

Dall’emergenza sanitaria emergono tutti i limiti della gestione regionalistica della sanità degli ultimi venti anni, dalla discrezionalità dei presidenti di Regione, alle prese di posizione scomposte e al rimpallo di responsabilità fra Stato e Regioni, con conseguente smantellamento della sanità pubblica e depotenziamento della medicina territoriale.

 

Governo Draghi a trazione nordista

A rompere il torpore intorno a questo tema ci hanno provato in modo congiunto i Cobas e il Comitato nazionale per il ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica e la rimozione delle diseguaglianze (quest’ultimo articolato in quaranta comitati di scopo sparsi per la Penisola) che, con varie forme di mobilitazione, da due anni si battono per respingere il progetto eversivo di autonomia differenziata fin dalla sottoscrizione del documento del 14 febbraio 2019 che anticipava due assemblee nazionali e lo sciopero del successivo 17 marzo. Non ci rassicura lo scampato pericolo del ritiro del DDL Boccia, dal nome del precedente ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, incorporato o meno alla legge di Bilancio, e ancor meno ci può lasciare tranquilli il fatto che il Presidente Draghi non abbia fatto accenno al progetto di AD: la composizione della squadra di governo del nuovo governo Draghi, con ben 18 ministri su 23 provenienti dal Nord, ripropone infatti il rischio di una nuova deriva autonomistica. A Giuseppe Provenzano, vicedirettore Svimez, è subentrata Mara Carfagna in quota FI, nominata ministra del Sud con delega al Mezzogiorno e alla Coesione sociale che a conclusione della prima giornata del convegno “Sud – Progetti per ripartire” e su Il Mattino del 23 marzo scorso ritiene che i LEP (Livelli essenziali di prestazione) debbano essere definiti dallo Stato. La responsabile degli Affari regionali e Autonomie, Mariastella Gelmini, annuncia di voler ripartire dalla Legge Quadro portando a compimento il processo di regionalizzazione anche attraverso la costituzione di un comitato interministeriale. A fine maggio la Ministra per gli Affari regionali in audizione alla Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale ha ribadito che il tema del federalismo fiscale così come quello del regionalismo differenziato restano temi importanti dell’agenda politica”. E aggiunge “Se è vero che abbiamo assistito per effetto della crisi pandemica ad un ritrovato e pervasivo intervento dello Stato nella gestione dell’emergenza occorre ricordare che ciò è strettamente collegato alla natura della pandemia, la quale, come anche era logico presupporre e come ha sancito anche una recente sentenza della Corte Costituzionale sulla Valle d’Aosta (la sentenza n. 37 del 2021), resta competenza nazionale. Ciò però non può significare per quanto mi riguarda un ritorno ad un nuovo centralismo”. 

 

Procedura extraparlamentare

L’impegno nostro e di altre/i su questa partita è essenziale: non bisogna dimenticare che – una volta ratificate dal Parlamento – le intese governo-Regione hanno durata decennale e non sono reversibili, se non per un recesso da parte delle Regioni stesse. Si avrà la fine della Repubblica una e indivisibile con, potenzialmente, 20 sistemi scolastici, 20 sistemi sanitari, 20 normative ambientali e di sicurezza sul lavoro, 20 gestioni delle infrastrutture. Indietro non si potrà tornare. Non c’è tempo da perdere.

L’autonomia differenziata, oltre che per il merito, è inaccettabile anche per la procedura parlamentare prevista per la sua approvazione: senza possibilità da parte del parlamento di emendare i disegni di legge del consiglio dei ministri per attuare le “intese” tra governo e Regioni. Non solo, una modifica degli accordi potrà avvenire solo attraverso il reciproco consenso delle parti e nessun referendum potrà intervenire nel merito degli accordi.

In conclusione, l’autonomia differenziata è un pericolo per la tenuta del principio di uguaglianza riferito ai principali diritti costituzionali: salute, istruzione, università e ricerca, lavoro, previdenza, assistenza. Giusto quindi ripartire da una maggiore equità e attenzione verso i territori del Sud, riequilibrando le differenze infrastrutturali e di servizi e per iniziare progressivamente a recuperare il gap esistente e risolvere una questione che è innanzitutto di giustizia sociale.