photo credits: Romain Del Buono
Sta facendo discutere la sentenza della Cassazione che vieta la possibilità per i genitori di sostituire il pasto della mensa scolastica con il panino o comunque con cibo portato da casa.
La storia è iniziata diversi anni fa a Torino: un gruppo di genitori, contrari ai rincari del buono pasto e alla qualità del cibo, rivendicò il diritto di dare ai figli un pasto sostitutivo preparato a casa; le scuole facevano resistenza (non c’è il personale, non ci sono i locali, i cibi si possono contaminare ecc.), ma alcune sentenze diedero ragione ai genitori in quanto il servizio è a pagamento e come tale le famiglie possono rifiutarsi di pagarlo. Il MIUR fece una circolare che demandava alle scuole il compito di organizzare nel modo migliore il doppio servizio, ma nel contempo si apprestava, insieme alla neonata giunta Appendino, a contrastare la sentenza nelle aule dei tribunali. Nel frattempo però la faccenda panino si è diffusa a macchia d’olio e in molte scuole ad oggi esiste la doppia possibilità, con un danno non piccolo nei confronti degli appaltatori del servizio, un giro d’affari che Coldiretti ha quantificato in 1,3 miliardi di euro.
Così si arriva alla sentenza delle scorse settimane che fa appello a principi che, sul piano teorico, sono ampiamente condivisibili: il tempo mensa fa parte del tempo scuola e, come tale, non può essere considerato un “servizio a domanda” che metterebbe a rischio il progetto educativo ugualitario che la scuola deve incarnare. In effetti è possibile leggere tutta la vicenda del “panino a scuola” come il tentativo di rispondere individualmente al degrado in cui sono scivolate, neppure troppo lentamente, le mense scolastiche e i dati allarmanti che escono da alcune inchieste non fanno altro che confermare le impressioni dei genitori: parlano chiaro i rapporti di Cittadinanzattiva e anche le ispezioni dei NAS (su 224 mense scolastiche ispezionate, in ben 81 sono state rilevate irregolarità) che hanno fatto affermare alla ministra della salute Giulia Grillo: “Cibi scaduti, gravi carenze igieniche, perfino topi e parassiti vari: un film dell’orrore. Come madre e come ministro mi indigna pensare che sulle tavole dei nostri figli, a scuola, possano finire escrementi, muffe o alimenti di dubbia origine”.
Un’altra netta sensazione è che si mangiava meglio quando le mense erano gestite a livello comunale, con cuoche direttamente interessate alla scelta delle derrate e con una comunità di riferimento a cui rendere conto della qualità dei pasti. Come siamo arrivati a questa situazione?
Negli anni i Comuni hanno via via dismesso le mense pubbliche: i privati sono arrivati, hanno preso possesso gratuito delle mense costruite con denaro pubblico e hanno cominciato a sfornare cibi di qualità più che dubbia per i nostri figli e i nostri studenti, moltissimi in età prescolare (dove si mangia cinque volte la settimana). Spesso si tratta di multinazionali, difficilmente controllabili dai generosi Comitati mensa dei genitori che si prestano a svolgere quasi un secondo lavoro, ma che poco possono alla fine nel controllo di aziende così grandi e potenti.
Si tratta di imprese che lucrano sia sul cibo dei bambini sia sui diritti e gli stipendi dei lavoratori, spesso inquadrati come “soci” che percepiscono stipendi poco dignitosi. È un processo che ben conosciamo e che ha investito moltissimi settori dei servizi pubblici che sono diventati terra di conquista per chi fa del profitto (e non certo della qualità) l’obiettivo primario della propria attività.
Ma siamo sicuri che i Comuni non siano in grado di sostenere queste spese a fronte delle rette che comunque i genitori pagano? Non pare proprio. Esistono Comuni che hanno deciso di reinternalizzare il servizio scoprendo che, anziché rimetterci, sono andati in attivo e hanno potuto così abbassare le rette (vedi ad esempio il Comune di Lamporecchio, PT). D’altra parte in Italia ci sono ancora mense scolastiche pubbliche (circa il 15%, dati MIUR 2014) che, con la loro esistenza, dimostrano come il servizio sia sostenibile economicamente e anche la Rete nazionale commissioni mensa, dopo aver preso in esame il servizio in 257 comuni, ha concluso che non c’è nessun vantaggio nell’esternalizzazione del servizio. Accade cioè ciò che abbiamo già visto in atto ad esempio nella gestione degli appalti per le pulizie scolastiche: al MIUR converrebbe assumere collaboratori scolastici anziché finanziare cooperative che fanno profitti sulla pelle dei lavoratori, ma non rappresentano un risparmio per le casse dello Stato.
È dunque il momento di fare un salto di qualità e di passare dalla resistenza individuale rappresentata dalla battaglia del panino a una battaglia collettiva e fortemente politica cioè quella a favore della ripubblicizzazione delle mense scolastiche.
I genitori, i Comitati mensa, i Consigli di Istituto devono aprire vertenze nei confronti dei Comuni e pretendere che siano loro forniti alcuni dati, quali il numero di pasti forniti nell’anno scolastico, il ricavo dai buoni pasto, i costi delle derrate alimentari, i costi del personale impiegato. Con questi dati non sarò difficile fare due conti e capire che, se c’è la volontà politica, i Comuni possono procedere alla reinternalizzazione del servizio, magari prendendo esempio dai Comuni che si sono mossi virtuosamente in questa direzione. Inoltre mense pubbliche nei piccoli comuni potrebbero veramente mettere in pratica la scelta del kilometro zero e dei prodotti tipici, diventando così una risorsa per l’economia dell’intero territorio.
Una mensa pubblica sarebbe, per sua natura, sottratta ai meccanismi del profitto: come possiamo pensare che una multinazionale guardi più alla qualità del cibo che ai suoi incassi? E come abbiamo potuto permettere che sulla salute dei più piccoli si facessero profitti? La mensa per molte famiglie non è una scelta, ma una necessità e si configura come un servizio essenziale che come tale deve rimanere saldamente nelle mani pubbliche e, in prospettiva, diventare totalmente gratuito, così come accade per gli ospedali.
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