Sono in sala insegnanti. Avete presente? Beh, immagino di sì ed è molto probabile che stiate sfogliando la nostra rivista proprio in uno di questi straordinari ambienti della scuola della Repubblica italiana. Spazi aperti e areati, arredati con gusto, funzionali, confortevoli e dotati di ogni strumento utile ai docenti per istruire i cittadini del domani.
L’aula docenti della mia scuola è un luogo come un altro, familiare a chiunque abbia avuto a che fare coi resort di lusso dentro i quali ci muoviamo quotidianamente: mura scalcinate, mobili degli anni ottanta, penne rosicchiate della Cisl, vecchi computer di scarto. E mentre guardo il groviglio inestricabile di cavi che permettono la connessione tra computer vicini e remoti, mi rimbalzano in testa quattro parole: influencer, virus, contagio, viralità. Queste parole, assieme a molte altre, afferivano fino a poco tempo fa al registro specifico ed esclusivo della medicina. Poi, solo negli ultimi trent’anni, sono state ri-semantizzate e ricollocate nell’alveo dell’informatica, dei social, della comunicazione, fino a costituire parte fondamentale del nostro lessico quotidiano. Ora ritornano prepotentemente al campo semantico dal quale le avevamo sottratte in precedenza.
Ci penso intensamente e strizzo l’occhio al collega di Informatica, come se i nostri pensieri fossero legati da una rete neurale particolarmente complessa, capace di ridicolizzare quell’inutile e vetusto groviglio di cavi che attraversa le pareti della nostra scuola e porta le magnifiche sorti e progressive classe per classe. Lui mi sorride e io mi convinco che davvero ci siamo intesi con la sola forza di uno sguardo. Oppure mi ha sorriso solo perché gli sto simpatico, mentre lo osservo sciamare per dirigersi in laboratorio. Ecco, mentre cerco di sbirciare ciò che accade nel suo laboratorio mi rendo conto con stupore che oggi è un venerdì anomalo. Eppure sembrava tutto regolamentare: il pavimento, la luce al neon, la nebbia, il gel, il bip dei misuratori di temperatura, il vociare dei ragazzi. No, quello no. Quello era diverso, stamattina. Di solito il venerdì c’è un’aria distesa, sia tra i docenti che tra gli studenti. In tutto l’istituto e forse in tutti gli istituti d’Italia si respira un’aria rilassata, al sapore di vaniglia e pane fresco. Perfino la collega ansiosa e ansiogena sembra rallentare il passo quando entra in aula docenti, perde tempo, fa una piroetta su sé stessa e si dirige in classe. Di solito ci impiega 3,4 secondi. Il venerdì ne impiega ben 6,5, fa in tempo a sorriderti e a dirti che Giachetti è tremendo, che De Rossi andrebbe sospeso e che per fortuna oggi è venerdì. Tutti sono più rilassati e anche le lezioni procedono a un ritmo disteso e per nulla serrato. Però a concentrarsi meglio ci si rende subito conto che qualcosa è andato storto. Il clima, l’aria, il riscaldamento globale.
Qualcosa deve avere inceppato questo venerdì. Forse dev’essere stata la consapevolezza di tornare a trincerarci di nuovo dietro ai nostri computer, di parlare agli schermi, di vanificare tanti sforzi. O forse dovremmo dirci che un anno dopo l’inizio di tutto questo, poco è stato fatto a viale Trastevere e ci ritroviamo ora a ripetere un copione che conosciamo a menadito per ripararci da un virus estremamente pericoloso e letale.
Questo virus scompone le forme sociali, le organizzazioni, lo spazio e il tempo. Disintegra progressivamente le forme vitali con cui abbiamo organizzato le nostre esistenze, ci tiene a debita distanza, ci impedisce di partecipare a quel moto perpetuo e indomabile che chiamiamo bios e che dà l’avvio a ogni sistema operativo. Non puoi sconfiggerlo con Norton antivirus né con Avast, perché irrompe con tutta la sua potenza coloniale nelle nostre menti, si diffonde attraverso reti neurali, nodi digitali, modem analogici, segnali cablati, cavi coassiali, fobie tribali. La sua banda larga è la paura, il suo ripetitore di frequenza siamo noi stessi. E quando avremo il software giusto, quando questo virus diverrà inutile come un lettore di floppy disk da 2.5 pollici nell’anno di grazia 2021, allora ci diranno che in fondo tutto può essere fatto comodamente da casa, che la didattica a distanza ha funzionato, che gli scioperi è meglio non farli, che per passeggiare è opportuno chiedere il permesso al comando dei carabinieri, che Just eat è meglio di andare al ristorante, che Amazon può benissimo soppiantare i negozi, che i cinema sono superati perché tanto su Netflix c’è tutto, che le librerie non hanno più un senso e che stare sul divano è una gran figata. Insomma, sarà il trionfo delle passioni tristi.
Fortuna che entra il mio collega preferito e mi propone di prendere un caffè. Facciamo il conto di chi va in pensione, di chi chiede trasferimento, insultiamo il governo attuale e gli ultimi venticinque che si sono succeduti, parliamo del Toro e della Juve. Lui è di matematica e mi fa tutto d’un fiato un ragionamento col suo vernacolo partenopeo: “André, i numeri parlano chiaro. 108.432 morti, 745 milioni di litri di gel, 160 miliardi di mascherine, novanta giorni di scuola perduti, ventuno DPCM, tre vaccini – tutti rigorosamente privati! – due governi, una dozzina di punti di PIL bruciati, due edizioni di Sanremo, un’intera gamma di colori per ogni area geografica e nessuno, e sottolineo nessuno, che abbia ancora valutato l’unica cosa che andava fatta sin da febbraio del 2020: costringere alle dimissioni tutti quei lestofanti della regione Lombardia!”
Lo guardo e rido di gusto, mentre a mente ripasso l’ultimo numero di Topolino che è uscito in edicola. Forse oggi faccio in tempo a leggerlo in classe per omaggiare il sommo poeta o molto più prosaicamente per citare il nuovo sottosegretario leghista. O forse è così prezioso che me lo tengo per me. Vediamo.
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