Due bambini travestiti da cani per poter uscire durante il primo lockdown italiano: Daniele Novara, pedagogista, ha usato questa immagine forte per sintetizzare il “furto di futuro” subito dai più piccoli in un confinamento che, nonostante la pandemia, si sarebbe potuto/dovuto evitare.
Partendo da questa convinzione, il CESP (Centro Studi per la Scuola Pubblica) – che non ha rinunciato a ragionare su senso e prospettive della scuola italiana neanche nel lungo periodo della pandemia – lo scorso 11 dicembre ha organizzato on line, pur nella consapevolezza dei limiti e delle contraddizioni delle piattaforme informatiche, un corso nazionale di formazione/aggiornamento su: “Il diritto al sapere critico per difendere la scuola pubblica statale e il benessere psicofisico di alunne/i e personale”.
Scuola di massa addio
Serena Tusini (docente, La Spezia) ha esordito ricordando che la scuola italiana, da circa venti anni, è stata sottoposta a un continuo attacco con l’obiettivo di rimetterne in discussione due caratteristiche fondamentali, conquistate negli anni settanta: essere diventata di massa e aver svolto un ruolo di ascensore sociale per le fasce più deboli della popolazione. Un processo iniziato alla fine degli anni novanta, in nome del passaggio dal sistema nazionale della pubblica istruzione alla cosiddetta Autonomia Scolastica, all’interno di un percorso fortemente voluto dall’Unione Europea.
Nel 1992, infatti, l’articolo 126 del Trattato di Maastricht attribuiva per la prima volta alla Commissione europea competenze in materia di istruzione. Obiettivo principale, lo sviluppo delle competenze professionali e sociali, per un migliore adattamento dei lavoratori alle esigenze del mercato del lavoro. In quest’ottica l’alfabetizzazione informatica ha acquistato centralità, i contenuti del sapere, ridotti a mero nozionismo, sono stati sacrificati a favore del cosiddetto “imparare a imparare”, mentre ha assunto un ruolo fondamentale lo “spirito di iniziativa e imprenditorialità”. In effetti, già nel 1989 un gruppo di lavoro sull’educazione dell’ERT (Tavola Rotonda Europea degli Industriali) aveva affermato l’importanza strategica della formazione e dell’educazione per la competitività e contestato il sistema pubblico e centralizzato dell’istruzione, in nome della necessità per i datori di lavoro di avere dipendenti “in grado di adattarsi ad un continuo cambiamento e di accettare senza posa nuove sfide”.
Di conseguenza, le discipline sono state progressivamente ridotte all’essenziale e/o snaturate (per ultimo si pensi all’insegnamento dell’Educazione Civica), i libri di testo semplificati, i contenuti standardizzati, ridotti in pillole, sganciati dal contesto storico-sociale di riferimento. La modalità asincrona, prima ancora che durante il lockdown, era già stata praticata in sostanza coi quiz Invalsi, attraverso le risposte mediante crocette dalle quali non emergono né il ragionamento, né la complessità dei problemi.
In questa prospettiva il sapere è inutile: si può, infatti, smontare e rimontare un testo di letteratura (guidati da un docente ridotto a coach) come se fosse un cadavere da sezionare, collocato in un luogo e in un tempo dei quali non si ha contezza. Non si tratta, certo, di tornare alla scuola gentiliana (opposta al diritto all’istruzione qualificata e per tutti sancito dalla Costituzione) e neanche di demonizzare la tecnologia (anche se ne va incentivato un uso critico e ragionato). Occorre invece ribadire che, in nome della libertà di insegnamento, compito essenziale della scuola è quello di contribuire alla formazione di cittadini in grado di leggere autonomamente il mondo. Perché ciò possa concretizzarsi, non basta, però, un pur necessario slancio intellettuale. Per non tornare alla scuola pre-pandemia, occorre cambiare rotta: invertire le politiche degli ultimi venti anni e riprendere a investire sull’istruzione, assumere nuovo personale, ridurre il numero di alunni per classe, ristrutturare, riprogettare e costruire nuovi ambienti di lavoro. Consapevoli del fatto che se non si investe sul sapere non c’è futuro.
Disturbi emotivi in crescita tra i bambini
Daniele Novara ha innanzitutto denunciato gli effetti negativi prodotti dal distanziamento nei più piccoli ricordando che nei bambini e nei ragazzi, se isolati, crescono tutti quei disturbi emotivi e comportamentali che la scuola può contribuire ad affrontare. Ancora, il forzato confinamento casalingo ha determinato, soprattutto nella scuola dell’infanzia e primaria, un ritorno indietro. Gli allievi sono stati ristretti esclusivamente nel contesto familiare, proprio perché a scuola è stato interrotto il processo di socializzazione primaria fra pari. E così, in sostanza, sono venuti meno i diritti dei bambini, negati da un governo definito “novello Erode” che, peraltro, non è stato in grado di proteggere neanche gli anziani, sino a costringere i più piccoli a relazionarsi con educatori “dal volto mascherato”.
Si tratta di scelte che non stupiscono, dal momento che l’Italia ha la percentuale più alta di tutta l’area dell’OCSE di ragazzi che non studiano e non lavorano: il 20% della popolazione dai 15 ai 26 anni. Ancora: la figura dell’insegnante, a partire dai bassi stipendi, è stata progressivamente dequalificata. Un quadro coerente con una scuola dove non si insegna a porre domande ma a concentrarsi, quasi sempre meccanicamente, sulle risposte. Dove le attività laboratoriali, l’imparare grazie e attraverso la condivisione fra alunni sono sempre meno presenti. Dove il registro elettronico ha reso sempre più formale e asettico il colloquio didattico-educativo. Una scuola nella quale la Didattica a Distanza ha fatto crescere gli squilibri presenti, perché, come diceva don Milani: “Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”.
Governare alimentando la paura
Piero Bernocchi (portavoce nazionale della confederazione Cobas) si è preliminarmente soffermato sugli effetti sociali dell’attuale pandemia, confrontandoli con quanto accaduto in situazioni simili, non nel lontano passato (la “spagnola” dopo la prima guerra mondiale), ma in anni più recenti: 1958/59 e 68/69 quando un’idea positiva del futuro (legata all’uscita dalla guerra e al boom economico nel primo caso e alla voglia di trasformare il mondo nel secondo) ha evitato che ci si concentrasse esclusivamente sulle malattie. Oggi, al contrario, paure tanto generalizzate quanto immotivate e ingigantite ad arte da demagoghi fascistoidi (“le disgrazie dell’occidente derivano dai migranti”), la diffusione del sovranismo (quasi sempre accompagnato dal cosiddetto complottismo), l’ambizione di un prolungamento senza limiti della vita umana hanno determinato un modo patologico di confrontarsi con la realtà e il conseguente clima generale di panico. In sostanza, aver tentato di negare, in nome di un più che discutibile senso di onnipotenza, la naturalità della morte, in una realtà che tende ad atomizzare i rapporti sociali, ha contribuito a ingigantire le paure. Solo in un quadro del genere è possibile comprendere perché una parte largamente maggioritaria dei docenti preferisca mantenere le scuole chiuse. E ciò nonostante l’evidente fallimento della Didattica a Distanza e nonostante i dati scientifici dello stesso Comitato Tecnico Scientifico dimostrino ampiamente che gli edifici scolastici siano luoghi decisamente più sicuri, se paragonati alle tante attività che sono regolarmente proseguite durante il lockdown. Su questo vissuto dei docenti pesa, anche e forse soprattutto, il progressivo svuotamento della dignità e dell’importanza del lavoro scolastico. Un’attività percepita come poco appetibile, se si considerano salari e riconoscimento sociale.
I docenti assomigliano sempre più agli artigiani che durante la prima rivoluzione industriale abbandonarono i telai per essere trasformati in operai. Costretti a fare i conti con una nuova e imprevista organizzazione del lavoro, subordinata ai tempi delle macchine, espropriati da ogni possibilità creativa, alienati rispetto al lavoro e alle loro stesse condizioni di vita. Oggi siamo di fronte a una dipendenza dai dispositivi tecnologici, tipica della scuola-azienda, esaltata dalla DaD, che le lotte di questi anni hanno rallentato, ma che, anche a causa delle passività di una parte dei lavoratori della scuola, pesa come un macigno sulla funzione docente. Non essendo ipotizzabile il ricorso a forme contemporanee di luddismo dentro la crisi di civiltà che stiamo vivendo, la scuola, incapace di elaborare contributi e riflessioni autonomi e originali, rischia di essere travolta. Di non rappresentare un argine alla barbarie.
Gestione dell’emergenza discutibile
Costanza Margiotta (Università di Padova, promotrice di Priorità alla Scuola) ha preliminarmente sottolineato che le difficoltà in cui si trova attualmente la scuola non sono esclusivo effetto della pandemia, ma figlie della mancanza di investimenti (materiali e progettuali) degli ultimi venti anni. Il Covid, in sostanza, non ha fatto altro che far emergere, ed esasperare, contraddizioni e problemi già presenti. Non a caso l’Italia è stato uno dei pochi Paesi, durante e dopo la crisi economica del 2008, che non ha investito nell’istruzione.
Edifici obsoleti (mediamente costruiti da oltre 50 anni) e mal conservati, abbandono e dispersione scolastica fotografano impietosamente la situazione. In questo contesto, la scuola pubblica statale non contribuisce certo a colmare le diseguaglianze che, al contrario, durante i periodi di chiusura sono cresciute. Ancora, la quantomeno discutibile gestione dell’emergenza ha determinato anche l’assurda e immotivata contrapposizione tra diritto alla salute e diritto all’istruzione, oltre a determinare ulteriori stress psicofisici. Priorità alla Scuola chiede, conseguentemente, un piano di investimenti straordinario per l’istruzione con l’obiettivo di operare una reale discontinuità, stabilizzare il personale precario e garantire lezioni in presenza e in sicurezza. La scuola deve essere luogo di confronto e conflitto, in grado di prefigurare una nuova società, nella consapevolezza che il diritto all’istruzione è fondamentale per la stessa tenuta costituzionale del Paese. Anche per questo motivo, bisogna opporsi alla regionalizzazione dell’istruzione, che produrrebbe ulteriori e intollerabili disparità.
Salvare le energie vitali
Infine, è toccato a Barbara Bertani (docente, Reggio Emilia) e Silvana Vacirca (docente, Firenze) proporre un primo bilancio su quanto accaduto dalla chiusura di marzo a oggi.
La prima ha messo in luce come durante la DaD la già complicata ricerca di percorsi inclusivi durante la didattica normale sia stata progressivamente abbandonata, nonostante nel mese di marzo si fossero sprecati fiumi di parole perché nessuno rimanesse tagliato fuori. Al contrario, man mano che la didattica digitale è andata avanti, è, purtroppo, cresciuta l’idea che una quota di bambini “non educabili” fosse fisiologica. Un’analisi confermata dai dati Istat: quasi il 34% delle famiglie italiane non possiede un computer. La docente ha anche denunciato quanto il fare scuola nelle cosiddette aule virtuali abbia ulteriormente incentivato nei genitori l’idea di essere innanzitutto utenti/clienti, con il conseguente diritto/dovere di entrare nel merito dei processi educativi e della loro valutazione.
Bisogna, perciò, rimettere in discussione la semplificazione (e talvolta la banalizzazione) dei contenuti, ritornare a una educazione all’autonomia, per proporre una “grammatica del mondo” in grado di sviluppare la didattica delle discipline, anche all’interno di una prospettiva di genere. Infine, ricordando le lezioni di Fantastica di Gianni Rodari (“dobbiamo proporci il compito di salvare nel cittadino di domani […] quelle energie vitali, quegli slanci attivi, quell’intensità di passioni…”) ha proposto di introdurre una nuova materia per insegnare a riconoscere le manipolazioni, a riflettere sulla realtà cogliendone, al di là delle letture superficiali e di comodo, la complessità. Se pensiamo, ad esempio, ai mondiali di calcio disputatisi nell’Argentina delle Madri di Plaza de Mayo (1978), quando la giunta militare golpista provò a nascondere morti e desaparecidos, riproporre l’immagine del carro armato proiettato nel tabellone di uno stadio permetterebbe di ragionare e costruire un’altra narrazione.
Contenitori da riempire
Silvana Vacirca, che insegna nella scuola secondaria di primo grado, ha conosciuto sia la DaD che la didattica in presenza nel tempo del distanziamento. Le regole attuali, nella scuola media, ripropongono modalità di lavoro tipiche della scuola trasmissiva e passivizzante degli anni ’50 del secolo scorso. Rigida separazione dei banchi, nessuna possibilità di lavori di gruppo né laboratoriali, impossibilità di sperimentare/andare fuori dalla scuola. Regole spesso accompagnate da disposizioni delle quali non è facile comprendere il senso. “Non svolgere verifiche su carta; mettere in quarantena i libri delle biblioteche; divieto di appendere sui muri le carte geografiche”.
Ma anche rispetto al lavoro on line, nonostante la propaganda, è ugualmente valido il paragone. In sostanza, non si sta sperimentando il futuro, ma si sta riproponendo la logica del sacco da riempire, che guarda agli studenti come adulti in miniatura. Il che, peraltro, corrisponde a ciò che vede durante la lezione (frontale) on line il docente: tanti rettangolini minuscoli che rappresentano gli allievi.
Si tratta di una modalità di lavoro che produce una doppia alienazione, in chi parla e in chi ascolta, ed è segnata da una sorta di peccato originale: se salta la connessione finisce la scuola. Una modalità che acuisce le differenze tra chi può partecipare senza problemi e chi non è nelle condizioni di farlo, con il risultato che la scuola non tiene più fuori dai suoi confini le differenze sociali, le disuguaglianze. La scuola, poi, smette di essere spazio pubblico, luogo altro (anche per i docenti) rispetto alla casa. E infatti, durante il lockdown, ai più piccoli è stato impedito di compiere quotidianamente un viaggio decisivo rispetto alla loro crescita, quello di uscire/allontanarsi da casa per andare a scuola. Infine, è evidente che in questo contesto ci sia sempre meno spazio per la libertà di insegnamento e un progressivo svuotamento della democrazia, a partire da un sostanziale esautoramento degli organi collegiali.
Un convegno non ha certo il compito di indicare soluzioni, ma di condividere riflessioni, ragionamenti, perplessità. Se servirà a rimettere al centro del dibattito il diritto all’istruzione, di qualità e per tutte/i, contribuendo a mettere in discussione l’emarginazione della scuola (gli 8 miliardi di euro tagliati dalla Gelmini non sono mai stati recuperati) sarà stato un evento utile. Ma speriamo sia stato utile anche per rafforzare la connessione sentimentale con quanti in questi mesi hanno continuato a chiedere la riapertura in sicurezza delle scuole.
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