Milioni di persone (lavoratori e studenti) si recano quotidianamente a scuola: un dato già di per sé sufficiente a certificare la centralità del mondo scolastico. Inoltre, quanto accade e si sviluppa al suo interno riguarda l’intera società e ciò che avviene in questo contesto rappresenta anche una formidabile cartina di tornasole per comprendere il più generale sviluppo dei processi sociali. Per capire quanto ciò sia vero, consideriamo cosa è accaduto negli ultimi anni.
Sotto i colpi della “autonomia”, ovvero il tentativo, parzialmente riuscito, di dar vita alla cosiddetta scuola- azienda, si sono fatti significativi passi indietro. Una generazione di docenti, formatasi negli anni della “contestazione”, non è più presente -per raggiunti limiti di età, ma non solo – e i nuovi insegnanti, spesso, conoscono poco i loro diritti e tendono ad adeguarsi al “senso comune”. Quasi nessuno ricorda, per esempio, che ancora oggi “Nel rispetto delle competenze degli organi collegiali scolastici, spettano al Dirigente scolastico autonomi poteri di direzione, di coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane” (art 25, comma 2 , Dlgs 165/01 ). Nel rispetto degli organi collegiali, appunto. Parallelamente, è cresciuto il fastidio per il confronto e la riflessione: si pensi ai Collegi Docenti, diventati nella maggior parte dei casi assemblee silenziose, utili solo per ratificare decisioni elaborate altrove.
In sostanza, si sta progressivamente affermando la scuola dei “progetti”, nella quale c’è sempre minore attenzione per la didattica e ogni occasione è buona per non fare lezione. Una scuola che non investe sulla crescita dello spirito critico, ma, al contrario, stimola e premia il saper fare, inteso come esecuzione corretta e puntuale dei compiti. Che esalta acriticamente lo strumento del quiz, che subordina le conoscenze alle competenze – che peraltro i tanti sostenitori non riescono a definire in maniera unitaria e univoca -. Come se un’adeguata conoscenza fosse possibile a prescindere dalle ricadute concrete che essa stessa determina. “Quelli che si innamorano della pratica senza scientia sono come nocchieri che entrano in naviglio senza timone o bussola. Sempre la pratica deve essere edificata sopra la buona teoria”: sono parole di Leonardo da Vinci.
Livelli culturali al minimo
La scuola contribuisce, così, al più generale abbassamento del livello culturale del Paese e, nel frattempo, in primo luogo i docenti hanno sempre maggiori difficoltà a comprendere il proprio ruolo e la propria funzione sociale, anche perché subiscono quotidianamente la pressione della maggior parte dei dirigenti e delle famiglie, che tentano di imporre obiettivi e risultati. Per questi ultimi, infatti, il buon funzionamento di una scuola è determinato esclusivamente dal numero delle promozioni e dalla capacità di soddisfare il cliente/utente. Di ciò però ci si dimentica quando i maggiori quotidiani, silenti sui temi scolastici per tutto il periodo precedente, si meravigliano della distribuzione geografica dei risultati degli esami di stato. Si tratta di un rituale che immancabilmente si ripete anno dopo anno e al quale segue l’immancabile riflessione sulle prove Invalsi, sulla cui inattendibilità ha finalmente scritto parole inequivocabili lo stesso Ente di ricerca: “Le prove non possono misurare tutto. Ci sono competenze importanti – ad esempio quelle di comunicazione verbale e scritta, affettive e relazionali – che non sono valutabili con una prova standardizzata ma solo attraverso il contatto quotidiano che l’insegnante ha con i suoi allievi. Per questo le prove Invalsi non possono valutare globalmente uno studente né possono monitorarne e guidarne – come fa invece la valutazione degli insegnanti – il processo di apprendimento tenendo conto di tutte le variabili che inevitabilmente sfuggono alla valutazione standardizzata”. Parole cadute nel vuoto, ma che ci spingono a continuare, ribadendone la centralità, la battaglia per espellere i quiz dalla scuola italiana.
A complicare ulteriormente questo quadro, i pesanti e ormai quotidiani attacchi alla libertà di espressione e di insegnamento, attacchi peraltro del tutto coerenti con il clima generale del Paese, ben rappresentato (si fa per dire) dai due decreti sicurezza, dei quali non pochi commentatori hanno denunciato i tanti profili di incostituzionalità. Va, però, positivamente rilevato che la sospensione dal servizio della professoressa Rosa Maria Dell’Aria, “colpevole” di non aver censurato un lavoro dei propri alunni, ha determinato una diffusa protesta, e non solo nel mondo della scuola. Una protesta che, al di là del caso specifico (rispetto al quale ribadiamo la necessità dell’annullamento della sanzione), ha dimostrato l’attualità dell’art. 33 della Costituzione e una disponibilità diffusa sulla quale contare perché questo non venga, nei fatti, rimesso in discussione.
L’espropriazione della vita extra-lavorativa
D’altra parte, se la solidarietà verso la professoressa palermitana è stata “facile”, vale la pena ragionare anche su un caso “più complicato”. Ci riferiamo al licenziamento di un’altra insegnante, Lavinia Cassaro, che a Torino, durante un corteo antifascista, gridò “dovete morire” agli agenti di polizia. Allontanata per sempre dal posto di lavoro, prima che si concludessero le indagini della Procura per istigazione a delinquere, oltraggio a pubblico ufficiale e minacce. Scrive l’Associazione dei Giuristi Democratici: “Cassaro, in una situazione di esasperazione, si è lasciata andare a un non condivisibile sfogo rabbioso: se verrà rilevato in ciò una condotta giuridicamente rilevante, ne risponderà all’esito del relativo processo”, per poi sottolineare il contenuto politico della vicenda: “Ciò che ha segnato la costituzionalizzazione del rapporto di lavoro è la sua contrattualizzazione: il lavoratore non vende più se stesso ma solo le attività indicate nel contratto e nell’orario ivi previsto, restando irrilevante la sua vita extra-lavorativa”. È su questo punto che va aperta la riflessione, visto che un giudice torinese ha confermato la legittimità del licenziamento, sostenendo che si rimane docenti anche fuori dalle aule. In altri casi, in assenza di una sentenza, chi deciderà se si è rimasti o meno docenti? E, soprattutto, quanto la politica influenzerà tali decisioni? Non sarà superfluo ricordare l’art. 54 della Costituzione, secondo il quale i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore: ebbene, “durante un comizio della Lega ad Arcore, il ministro [Salvini] ha parlato della rom: ‘abbatteremo la casa della fottutissima zingaraccia’ , ha detto tra l’esultanza dei sostenitori” (ilnotiziario.net). A oggi, non risulta l’intervento di nessun giudice.
Logica cooperativa
Difendere la libertà di insegnamento vuol dire, anche, riprogettare gli spazi e ridefinire le regole stesse della convivenza. La scuola può diventare un luogo privilegiato per contrastare un Paese sempre più “incattivito”. Il razzismo, sdoganato dal governo giallo-verde e reso più cupo dal persistere di una crisi economica rispetto alla quale dal 2008 non si intravedono vie di uscita, può/deve trovare fra i banchi di scuola gli indispensabili antidoti: è più complicato chiamare “negro” e/o “zingaro” il tuo compagno di classe, con il quale condividi quotidianamente il percorso educativo-didattico e, soprattutto, attraverso il lavoro di tutte le discipline è possibile destrutturare i luoghi comuni e costruire percorsi critici di lettura della realtà.
Contro la parcellizzazione dei saperi, diventa, quindi, fondamentale riprendere la ricerca e la pratica interdisciplinare, andando controcorrente anche rispetto alla progressiva semplificazione dei contenuti, tipica di gran parte dell’attuale editoria scolastica. Un metodo di lavoro, quello interdisciplinare, che andrebbe praticato e sperimentato concretamente, diversamente dalla banalizzazione che avviene, nella maggior parte dei casi, durante il lavoro di programmazione dei Consigli di Classe. Se studiare il passato per comprendere il presente e progettare il futuro non è un semplice slogan, allora i percorsi didattici non possono essere separati dalla realtà e dalle contraddizioni sociali; essi anzi, su temi fondamentali, come ad esempio l’educazione al genere, devono contribuire a modificare orientamenti diffusi e consolidati, i cui tragici effetti la cronaca nera, purtroppo, ci propone senza soluzione di continuità. Tra l’altro, praticare una logica cooperativa – l’unica credibile nel lavoro scolastico – servirebbe anche ad assestare un colpo definitivo alla squallida logica del bonus premiale, dei cui presunti effetti salvifici, ovviamente, non parla più nessuno.
Nella prospettiva di un percorso critico e ragionato, anche il conclamato fallimento della cosiddetta Alternanza Scuola-Lavoro può rappresentare un’occasione privilegiata di riflessione: sul diritto al lavoro, sui diritti dei lavoratori, sul rapporto fra lavoro, sviluppo e questione ambientale. Tema, quest’ultimo, da sviluppare ulteriormente se vogliamo che sollecitazioni e interessi oggi particolarmente diffusi fra i giovani riescano a coniugare spinta etica, impegno individuale (pur importante) e concrete proposte di modelli (economici, sociali e culturali) alternativi.
Infine, vogliamo ricordare come, ancora oggi, persista un’intollerabile percentuale di abbandoni scolastici. Una dispersione che è 4 volte superiore fra i figli di genitori in possesso del diploma di licenza media, rispetto ai ragazzi con genitori laureati.
Destinare attenzione e risorse adeguate per porre fine a questa vergogna deve diventare un obiettivo condiviso e non contrattabile.
Commenti recenti