Anche quest’anno, nonostante l’interruzione determinata dal COVID-19, il CESP ha svolto una buona attività seminariale, inserendo accanto ai venticinque seminari in presenza, alcuni incontri in videoconferenza (a Catania, Palermo, Roma e in quest’ultima con due intere giornate dedicate alle problematiche emerse nei percorsi scolastici in carcere durante la pandemia “Ripensare il carcere: istruzione, cultura, tecnologie”).
Le tematiche toccate sono state, come sempre, equamente distribuite tra quelle relative ai Laboratori scuola-società (Ambiente, Medicalizzazione del disagio scolastico, Scuola in carcere, Ruolo delle donne/Omofobia, Immigrazione) e quelle di politica scolastica (Libertà di insegnamento, Meritocrazia, Regionalizzazione, Materia Alternativa all’IRC, Scuola in sicurezza, Inclusione scolastica). Il Centro Studi in questi anni è cresciuto dal punto di vista quantitativo e organizzativo ma anche in termini qualitativi, in autorevolezza, ruolo, capacità di iniziativa, di proposta, promuovendo convegni, seminari, conferenze e, attraverso tali attività, ha qualificato la propria azione non come esclusivamente convegnistica, contribuendo a produrre idee per un’analisi dei problemi sociali e culturali attraverso un intervento stringente in questi ambiti.
Il CESP per le scuole carcerarie
Importante in questo senso l’intervento sul carcere, partito anni fa da problematiche specificamente legate ai percorsi di istruzione negli istituti penitenziari, con la presenza del CESP al Tavolo Nazionale della Nuova Istruzione Adulti, che ha posto in evidenza le problematiche legate all’istruzione in carcere (anche attraverso audizioni dirette con i docenti della Rete delle scuole ristrette), fino a dimostrare la centralità di questo segmento dell’istruzione nell’esecuzione penale, quale elemento qualificante ai fini dell’abbattimento della recidiva.
Tale direzione ha permesso di inserire i percorsi di istruzione in quel processo di cambiamento dell’esecuzione penale che da mera attività di controllo diviene conoscenza diretta del detenuto ai fini di un suo positivo ricollocamento all’interno di quella società con la quale il “ristretto” ha reciso ogni rapporto al momento dell’ingresso in carcere. Nello sviluppo e potenziamento di questa linea di intervento, fondamentali sono stati lo sguardo dall’interno che i docenti della Rete delle scuole ristrette hanno avuto rispetto alle problematiche e alle difficoltà di relazione in ambito penitenziario e la pressione costante sulle istituzioni, unite ad una dimensione propositiva e costruttiva dell’intervento, che ha permesso il superamento delle diffidenze interne, attraverso un’analisi costante dei reali bisogni educativi della popolazione detenuta da parte dei docenti della rete e proposte didattico-progettuali alternative e concrete. Il coinvolgimento diretto dei docenti appartenenti ai percorsi di istruzione in carcere ha permesso la sperimentazione/realizzazione di una didattica attiva attraverso Laboratori interdisciplinari tramite i quali si sono proposti spazi alternativi e costruiti percorsi specifici per l’accompagnamento dei detenuti verso il fine pena.
Tale prospettiva è quella che occorrerebbe acquisire per ognuna delle tematiche proposte nei Laboratori scuola-società, se si vuole che questi siano il mezzo attraverso il quale intervenire concretamente nelle situazioni di disagio estremo per trasformarle, evitando di teorizzare il cambiamento, senza la pratica diretta di questo.
I minori stranieri
È ciò che occorrerebbe fare, per esempio, sull’immigrazione non dibattendo semplicemente ed esclusivamente sull’importanza dell’accoglienza degli immigrati (cosa sempre importante e proficua), ma procedendo attraverso la ricerca di specifiche misure che ne favoriscano l’inclusione e l’autonomia. Occorrerebbe, perciò, partire da una analisi dei bisogni concreti e delle reali situazioni di indigenza ed esclusione sociale dei giovani migranti che hanno fatto ingresso in Italia (spesso da soli) offrendo opportunità educative, percorsi di inserimento lavorativo di medio-lungo periodo, soluzioni abitative adeguate e l’integrazione in reti e relazioni sociali solide. Gli ultimi dati forniti parlano di circa 60.000 minori stranieri giunti in Italia da soli e diventati maggiorenni negli ultimi 5 anni, di cui ben 8.000 soltanto lo scorso anno. Secondo i dati del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, al 31 dicembre 2019 erano presenti in Italia 6.054 minori stranieri non accompagnati, ripartiti su quasi tutto il territorio italiano, ma concentrati prevalentemente in poche regioni: in particolare Sicilia (19,2%), seguita da Lombardia (13,6%), Friuli Venezia Giulia (11%) ed Emilia-Romagna (10%). I dati relativi alla distribuzione dell’età evidenziano che il 61,5% ha 17 anni, mentre nel 2015 i diciassettenni erano il 54%. I sedicenni rappresentano oggi il 26,1%, seguiti dai quindicenni (7,2%) e da chi ha meno di 15 anni (5,2%).[Fonte: Fondo per il contrasto della povertà educativa dei bambini].
I minori stranieri non accompagnati presenti sul territorio italiano si caratterizzano anche per una maggiore fragilità psicologica, dovuta non solo al trauma del percorso migratorio, ma anche alla precarietà e all’incertezza rispetto al futuro. Dunque la scommessa per il nostro Centro studi è fare in modo che l’analisi delle problematiche sociali più rilevanti, che trovano una evidenza all’interno del mondo scolastico, porti contemporaneamente ad un intervento propositivo per porre e risolvere concretamente, quanto più possibile, le contraddizioni del sistema scolastico e sociale in cui siamo immersi.
La medicalizzazione delle differenze
Proprio la appena richiamata fragilità psicologica dei giovani immigrati, ci porta ad entrare nel merito dello sviluppo di un altro dei Laboratori scuola-società su cui il CESP ha alacremente lavorato La medicalizzazione degli studenti che presentano caratteristiche di non “conformità” con la media dei loro coetanei, argomento che abbiamo analizzato e portato all’attenzione dei docenti a partire dal corso di due mesi svolto a Roma nel 2018, i cui risultati sono stati approfonditi nel convegno conclusivo, per poi essere riproposti in numerosi territori, attraverso seminari e incontri, che hanno coinvolto e interessato varie centinaia di colleghi e colleghe. Nel percorso delineato, interessante e complesso, sono stati evidenziati i rischi della medicalizzazione delle differenze, con la conseguente divisione della popolazione scolastica in categorie clinico-diagnostiche, Disturbi Specifici dell’Apprendimento, Bisogni Educativi Speciali e la trasformazione delle difficoltà di apprendimento e del disagio sociale in misure di controllo terapeutico.
I risultati dei seminari hanno messo in evidenza come gli stessi insegnanti rischino di leggere i comportamenti degli studenti e delle studentesse con la lente deformante della diagnosi clinica mettendo l’accento sui sintomi, le incapacità e i problemi, senza vedere le potenzialità, le capacità e gli interessi degli alunni, abdicando però così, al proprio ruolo, in nome di una delega ad un esperto e stigmatizzando ed etichettando difficoltà che dovrebbero essere gestite pedagogicamente.
Ma dopo aver posto il problema nei numerosi seminari svolti, è tempo di entrare nel vivo della questione e delle difficoltà di praticare, da parte degli insegnanti, ricerca e formazione in senso autonomo, assumendo pienamente nelle proprie mani la responsabilità educativa che ci appartiene, senza possibili adattamenti a modelli precostituiti, non perché non ci siano oggettive difficoltà nella relazione educativa nella scuola dell’Autonomia, ma perché solo se i docenti riusciranno a rivendicare il proprio ruolo attivo potranno rifiutare di essere colonizzati culturalmente da una visione clinico-terapeutica, di cui diventano semplici agenti di controllo, trasformandosi e adattandosi a quella che viene considerata la norma e la salute.
Riappropriarsi dei processi di apprendimento
Proprio in una fase di passaggio come quella attuale, post COVID-19, in cui le nuove tecnologie stanno producendo una trasformazione antropologica sull’attività attentiva e riflessiva, il ruolo dell’insegnante (che si vorrebbe trasformare in un semplice facilitatore culturale) diventa invece fondamentale, perché il docente, oltre ad imparare e gestire a sua volta le nuove tecnologie in prima persona, deve poi riuscire ad educare gli alunni e le alunne ad una utilizzazione adeguata e critica dei nuovi strumenti. Dunque, poiché sappiamo che la scuola costituisce un organo fondamentale per la formazione delle future generazioni (e nuove generazioni stanno entrando come insegnanti nel mondo della scuola) e proprio perché si riconosce il ruolo portante dell’istituzione scuola all’interno della società, tanto da poterne fare strumento che plasma gli individui, con un significativo potere di controllo sociale e disciplinamento, dobbiamo essere e rendere consapevoli che la medicalizzazione del disagio sociale si presenta come elemento costitutivo di tale processo di subordinazione culturale e come CESP occorre assumersi la responsabilità di un impegno a non indulgere nei confronti degli organi di governo che hanno innescato tale trasformazione, ma neppure avallare gli atteggiamenti passivi di parte della categoria.
È necessario, pertanto, entrare nel merito delle questioni ponendo i docenti di fronte alla necessità di comprendere che si sta cercando di deprivarli degli elementi della loro identità professionale, rendendoli subalterni culturalmente nei confronti di psicologi e neuropsichiatri, mente l’insegnante deve essere l’attore consapevole del processo di apprendimento dei propri studenti, che permette l’accesso ai saperi e alle conoscenze degli individui a lui affidati nel percorso di apprendimento. Bisogna allora, sempre più, entrare nel merito della questione e costruire le basi per un cambio di passo nell’approccio educativo, per impedire che la scuola sia trasformazione delle differenze in diseguaglianze o che risposte mediche e clinico-terapeutiche a problematiche di ordine sociale prevalgano sui presupposti pedagogici del fare scuola, il cui compito è formare cittadini critici e consapevoli, soggetti attivi della comunità e del suo funzionamento democratico, a patto, naturalmente, che questa sia la finalità riconosciuta da parte dei docenti, che sono parte fondamentale e propulsiva della comunità scolastica.
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