Dispositivo d’esclusione

Come affrontare a scuola il problema dell'omo-transfobia

photo credits: Jason Rosewell

Inizio anno scolastico, mese di ottobre. Si sta svolgendo un collegio docenti in cui si discutono e, nella maggior parte dei casi, si approvano i progetti rivolti agli studenti. Il tutto avviene con una certa regolarità: si elencano i contenuti, le classi coinvolte; c’è di tanto in tanto un po’ di discussione sui costi di alcuni progetti. Ma tutto procede più o meno nella norma.

Eppure questa volta il ritmo si arresta e inizia un’accesa discussione: ma su che cosa si discute? Alcuni docenti stanno presentando un progetto per affrontare il problema dell’omofobia e per favorire le condizioni affinché a scuola le ragazze e i ragazzi omosessuali e transessuali vivano il più possibile con equilibrio e serenità la scoperta e la costruzione delle loro identità, incontrando modelli positivi e relazionandosi autenticamente con coetanei e docenti. Come andrà a finire? Perché accade ancora che progetti come quello del caso riportato vengano bocciati dai Collegi dei Docenti, dai Consigli di Iistituto o addirittura rimangano chiusi nei cassetti delle scrivanie dei dirigenti scolastici?

Temi scomodi

Per alcuni docenti e dirigenti scolastici questi temi sono letteralmente scomodi, forse i più scomodi: non si può parlare di omosessualità e transessualità a scuola, sono argomenti che vanno affrontati eventualmente in famiglia, non in uno spazio pubblico come la scuola. E poi c’è il timore che le famiglie scrivano lettere di protesta, non mandino i propri figli a scuola nei giorni in cui si svolgeranno quelle attività. È meglio rinviare, aspettare che i tempi maturino, e comunque alla fine «problemi di questo tipo nella nostra scuola non esistono».

Non parlarne, evitare l’argomento, sottacere, ignorare, escludere dal discorso.

Il silenzio più o meno esplicitamente imposto è uno dei principali fattori che alimentano il dispositivo dell’esclusione: prima dell’insulto, prima della violenza fisica e dell’isolamento dal gruppo dei pari è il silenzio che cancella, che taglia fuori le identità omosessuali e transessuali, in quanto non assimilabili a modelli predominanti, soprattutto quello maschile eterosessuale.

E forse a partire da questa prospettiva possiamo provare a comprendere come l’omofobia in ambito scolastico riceva dal più ampio e articolato contesto sociale quella caratteristica che la fa essere espressione di un’ideologia fondata sull’eterosessismo che nega, denigra e stigmatizza ogni comportamento, identità e relazione non eterosessuale. Un’ideologia autoreferenziale, che non tiene conto della realtà, dei dati empirici, delle critiche ma che tende invece ad affermarsi per la sua operatività, per il fatto che risponde a bisogni individuali e sociali, a scapito però di una categoria di persone, di una minoranza.

La gestione del conflitto tra differenze

Come sostiene Giuseppe Burgio nel suo bel libro Adolescenza e violenza. Il bullismo omofobico come formazione alla maschilità, pubblicato da Mimesis nel 2012, l’omofobia contribuisce alla costruzione sociale dell’identità maschile, una costruzione che implica la distruzione dell’altro (l’omosessuale o il transessuale), la sua marginalizzazione, la sua esclusione, anche attraverso la derisione, l’insulto, la violenza. Un dispositivo che, come si può facilmente intuire, lavora al meglio quando gli attori del contesto (personale scolastico, coetanei, genitori) non vogliono vedere, non intervengono, non riconoscono le dinamiche che portano il fisiologico conflitto tra differenze, così numerose nelle nostre scuole, a trasformarsi in violenza verbale, fisica e psicologica. O addirittura quando questi attori, che hanno responsabilità educative, mi riferisco ovviamente agli adulti, avallano con il loro silenzio, con una battuta o minimizzando il problema, la sofferenza della vittima, la situazione di crisi, i vissuti di sconfitta esistenziale e sociale.

Invece è la scuola che per prima è impegnata a costruire ambienti in cui il conflitto tra differenze possa diventare interazione e confronto, affinché la costruzione dell’identità di ciascuno studente si realizzi attraverso il riconoscimento dell’altro e non attraverso il suo annullamento.

Perché se per ogni adolescente la posta in gioco forse più importante è il “chi sono”, per l’adolescente omosessuale in molti casi questa posta può trasformarsi in una sfida impossibile, o possibile solo a costi personali troppo elevati. Il bambino, prima ancora di aver compreso il proprio orientamento sessuale, non solo non trova modelli positivi per rappresentarsi la condizione omosessuale (nell’immaginario collettivo, nei contesti sociali di vita, nelle narrazioni scolastiche e familiari, nei mass media) ma apprende di solito lo stigma sociale che pesa sulla vita delle persone omosessuali e transessuali.

L’uso di epiteti volgari (“frocio”, “culattone”, “lesbicona”, “ricchione”) o di termini che addirittura escludono l’omosessuale dall’orizzonte “naturale” (“contronatura”, “anormale”, “scherzo della natura”) contribuisce sostanzialmente a definire l’identità omosessuale e transessuale come qualcosa di profondamente indesiderabile, non solo ignorata socialmente ma denigrata e discriminata. La stessa parola gay, entrata oramai nel vocabolario italiano, viene usata come un insulto generico, sinonimo di incapace, codardo, inetto, senza fare riferimento a l’orientamento sessuale della persona a cui è rivolto. Una condizione esistenziale, l’omosessualità, ridotta al rango di ingiuria. Se a questo si aggiunge, proprio nel nostro Paese, la pericolosità per un omosessuale di esprimere liberamente la propria affettività in pubblico o la totale mancanza di diritti individuali e sociali, ad esempio quello di formare una famiglia, non possiamo sorprenderci se un adolescente omosessuale, che si affaccia al mondo degli affetti, della sessualità e delle relazioni amicali, debba iniziare a compiere un percorso il più delle volte tutto in salita e doloroso per affermare se stesso, nonostante gli altri e la società.

Disimparare i modelli negativi

Prima di tutto egli deve provare a disimparare tutto quello che di negativo ha appreso dalla società stessa, quello che gli psicologi chiamano omofobia interiorizzata, operazione quanto mai difficile e faticosa, il più delle volte portata avanti in solitudine o con l’aiuto di pochi per destrutturare l’immagine negativa introiettata (“sono sbagliato, cosa non va in me?”, “perché non sono come gli altri?”, “sono malato e devo curarmi”). Poi deve provare a definirsi, a raccontarsi, agli altri e a se stesso, come omosessuale o transessuale, a concepirsi e ad agire come soggettività piena, in una quasi totale assenza di modelli e di rappresentazioni sociali positive. Definire la propria identità attraverso la rivendicazione della legittimità e dignità dei propri desideri affettivi e sessuali è passaggio obbligato per ogni donna e per ogni uomo, un passaggio culturale, in senso antropologico, che ha bisogno di socialità e di condivisione. L’omosessuale raramente afferma fin dall’inizio la propria identità con gli altri (la famiglia, gli amici, i compagni di classe, ….). Nella maggior parte dei casi si autodefinisce per sottrazione rispetto agli altri, non sono come, non desidero come, non amo come gli altri. Pensiamo quanto sia frequente nei contesti adolescenziali, sia femminili che maschili, condividere con i coetanei le prime cotte, le prime delusioni, le prime conquiste. Per l’omosessuale questa esperienza non solo non viene quasi mai condivisa ma di solito viene autocensurata, vissuta con senso di colpa, nascosta come una vergogna. Solo dopo un certo periodo di tempo può essere presa in considerazione la strategia del coming out, vale a dire raccontare/svelare ad una persona la propria omosessualità. Il coming out non è una semplice comunicazione di un aspetto di sé, è un raccontarsi, è provare ad affermare la dignità dei propri desideri, la propria posizione esistenziale rispetto e in relazione agli altri, siano essi i familiari, gli amici, i compagni, gli insegnanti. La scelta dell’invisibilità, del non dirsi a se stessi e agli altri, rappresenta il più delle volte una costrizione, una difesa da paure sedimentate in se stessi, paure di giudizi e pregiudizi che da secoli accompagnano e condannano l’omosessualità.

Il ruolo della scuola

Dovrebbe risultar chiaro come la scuola possa, e forse debba, svolgere un ruolo fondamentale, per porre un’attenzione pedagogica particolare, non solo verso chi nel proprio percorso di crescita affronta compiti di sviluppo più difficili e complessi rispetto ai suoi coetanei, ma anche nei confronti di chi, denigrando, insultando e isolando l’altro, definisce se stesso in una relazione di dominio. Il disprezzo e la mortificazione dell’altro sono atti performativi che producono identità: non solo delegittimano e deumanizzano l’adolescente omosessuale e transessuale ma insegnano, a chi li compie o vi assiste, l’esclusione come modalità di relazione con chi percepisce come differente; insegnano modelli normativi esclusivi e inconciliabili con altri esistenti e altrettanto plausibili; insegnano a rappresentarsi la società in una struttura gerarchica dove l’eterosessualità avrebbe una posizione di assoluto privilegio solo perché maggioritaria e storicamente avvantaggiata.

La scuola pubblica e laica nata dalla Costituzione può essere invece una scuola che include e riconosce, aperta alle trasformazioni sociali, un luogo fondamentale per contribuire alla produzione di identità. Ma soprattutto non può permettersi di agevolare il dispositivo dell’esclusione. Deve uscire dal silenzio, far conoscere i problemi, le persone, le loro storie e le loro risorse, parlarne con i bambini e con i ragazzi, trovando il linguaggio adatto per ogni età, dalla scuola dell’infanzia a quella superiore, come fa per ogni altro argomento. Perché non si impara ad amare solo quando si diventa grandi: amiamo nella nostra vita tante persone e in tanti modi diversi e tutti noi, eterosessuali, omosessuali, bisessuali e transessuali, proviamo ad amare, senza dover escludere nessuno. Ma soprattutto diventiamo uomini e donne fin da piccoli, cercando o rifiutando modelli, guardando e ascoltando, giocando e studiando, sperando sempre di trovare qualcosa che vada bene per noi e per gli altri, senza rinunciare mai alla nostra e altrui dignità.

(Da “Il curricolo nascosto” Cesp Bologna 2015)