photo credits: Christine Roy
Dopo gli scioperi climatici degli studenti di tutto il mondo e l’affermazione del movimento globale “Friday for Future“, composto appunto da studenti di scuole e università, ci si deve interrogare in modo ineludibile sul ruolo che l’insegnante può svolgere di fronte a una inedita chiamata di responsabilità delle giovani generazioni verso gli adulti: inedita, perché espressiva non più, a differenza dei conflitti generazionali del secolo scorso, di autodeterminazioni libertarie ed emancipatorie, bensì di esigenze di conoscenza e chiarificazione delle ragioni che hanno portato a quel fenomeno, denominato “cambiamenti climatici“, che – al di là delle sue dimensioni esclusivamente scientifiche – mette comunque a rischio il futuro delle giovani generazioni.
Il conflitto attivato da “Friday for Future“, pertanto, è epistemico, prima ancora che politico; e, come qualsiasi conflitto epistemico, esso richiede sforzi di analisi e conoscenza della storia delle parole, categorie e azioni che hanno portato al “furto” di futuro denunciato dai giovani.
L’onere che incombe sui docenti, pertanto, è davvero significativo.
I punti nevralgici
Proviamo a sintetizzarne i passaggi fondamentali di adempimento. Essi tracciano almeno quattro linee di approfondimento storico e semantico:
Le quattro linee proposte hanno una valenza pedagogica, prima ancora che euristica, in quanto permettono di riflettere sull’inedito ruolo che il formatore gioca nella sfida dei cambiamenti climatici.
Partiamo dalle prime due: perché si deve parlare di “emergenza climatica“? E perché tale termine focalizza meglio la individuazione delle cause? L’uso delle parole, com’è noto, influisce sulla conoscenza. Il tema dei cambiamenti climatici è spesso rubricato come “crisi” di un “modello/sistema di produzione” (quello capitalistico estrattivista, come sembra lasciar intendere la formula “capitalocene“) oppure come apice contraddittorio di una determinata “epoca” dell’umanità (quella dell’ “antropocene“). Entrambe le classificazioni contengono elementi di verità storica: il capitalismo si fonda sul primato del valore di scambio rispetto a quello d’uso, portando a qualificare la natura, in tutte le sue manifestazioni, appunto come “oggetto” di scambio; l’antropocene attesta il primato valoriale dell’essere umano quale predatore della terra che, a differenza di qualsiasi altro essere vivente, consuma oltre il fisiologico bisogno di sopravvivenza.
Energia e costituzione
Entrambi gli inquadramenti, però, ignorano una variabile determinante della condizione umana: quella delle regole costituzionali di convivenza per la sopravvivenza. Come ci ha consentito di scoprire la sorprendente ricostruzione storica di Norbert Elias, l’essere umano, per vivere, ha bisogno di due cose fondamentali: energia e regole costituzionali. Tutti i viventi sono esseri “energetici“, ma solo l’umano è anche essere “costituzionale“. In quanto essere “energetico” e “costituzionale“, su di lui incombe una triplice domanda: Da dove estrarre l’energia? Per quali bisogni? Attraverso quali regole costituzionali?
Nel corso della storia, l’umanità ha risposto in tre modi diversi a tali quesiti: per bisogni naturali attraverso regole costituzionali di adattamento ai cicli energetici della natura (nell’epoca del diritto paleolitico e neolitico e in quella – ancora praticata – del diritto indigeno); per bisogni naturali con regole costituzionali di preservazione dei cicli energetici della natura (nella lunga epoca del diritto agrario e in quella – ancora praticata – dei diritti di matrice religiosa); per bisogni materiali attraverso regole di manipolazione dei cicli energetici della natura (nell’epoca contemporanea dei due ultimi secoli e mezzo del diritto costituzionale fossile, elaborato in Occidente ma diffusosi ovunque nel corso del Novecento). L’estrazione umana della natura fossile, infatti, è il primo atto “innaturale” dell’umanità nella produzione di energia ed esso ha segnato in modo irreversibile le regole costituzionali di convivenza e il rapporto tra vita umana e clima.
Ne offrono testimonianza il dibattito nella seconda Convenzione rivoluzionaria francese del 1792, sulla impossibilità, per il diritto, di farsi carico dell’autosussistenza dell’intera umanità, e lo Statuto della Società delle Nazioni del 1919, con la demarcazione tra paesi sviluppati e non, in ragione della capacità di valorizzazione giuridica e tecnica dell’estrazione di risorse. Da un lato, le regole giuridiche non servono più ad adattarsi o conservare l’energia della natura, utile alla sopravvivenza dell’essere umano, ma servono a legittimare l’alterazione dei processi energetici naturali, al fine di moltiplicare opportunità di soddisfacimento di bisogni materiali e di consumo, ulteriori rispetto alla vita naturale (trasporti, luce, riscaldamento, consumi di oggetti ecc.); dall’altro, per la prima volta nella storia dell’umanità, la produzione di energia non è più risultata condizionata dal clima, ma ha condizionato e alterato costantemente il clima. Ecco allora che il diritto costituzionale legittimante l’energia fossile è stato quello che, da un lato, ha promosso sempre più libertà come opportunità di “benessere” materiale (narrato nei termini di “progresso“, “sviluppo“, “crescita“), ma, dall’altro, ha deliberatamente avallato la climalterazione della vita umana: la Costituzione di Weimar, figlia del mito industriale della Ruhr, sintetizza l’emblema di tutto questo, con le sue innumerevoli “clausole di sviluppo” attraverso l’estrazione fossile.
Libertà contro stili di vita energetici
I cambiamenti climatici, pertanto, non descrivono affatto la “crisi” di un modello (il capitalismo non solo nasce col diritto costituzionale agrario non con quello fossile, ma soprattutto tranquillamente convive con produzioni energetiche alternative al fossile) o di una specifica antropologia “morale” (anche l’uomo agricolo è stato predatore della natura, ma senza essere legittimato ad alterarne i processi energetici). I cambiamenti climatici fanno “emergere” il circolo vizioso del sistema di convivenza fondato sul diritto costituzionale fossile, moltiplicativo di libertà e benessere per tutti, a discapito dei cicli naturali di produzione di energia e del clima. Le recenti Costituzioni andine del “Buen Vivir” (figurazione ben diversa da quella di “benessere” e non a caso di matrice indigena, quindi pre-fossile) esprimono un tentativo di superamento di quel circolo vizioso.
Parlare di “emergenza climatica“, pertanto, consente di focalizzare chiaramente la situazione tragica prodotta dal circolo vizioso della convivenza costituzionale moderna. Lo hanno dimostrato imprescindibili ricerche, come quelle di Nicholas Georgescu-Roegen, sulla incompatibilità tra “seconda legge della termodinamica” ed economia politica delle Costituzioni, e di Joachín Herrera Flores, sulla c.d. “seconda legge della termodinamica culturale” (libertà costituzionali per tutti e per tutto, in nome del “benessere”) quale negazione della “seconda legge della termodinamica” della natura (l’aumento illimitato di possibilità – quindi di libertà – è illusorio, perché causa entropia ossia collasso).
Del resto, tutti noi sappiamo di produrre “impronte” negative sulla natura, a causa dei nostri liberi “stili di vita” energetici: dall’impronta ecologica, a quella di carbonio, a quella di kW, a quella di plastica. Tutti noi sappiamo di contribuire, con i nostri liberi “stili di vita” energetici, alle ingiustizie sociali e liberticide che il sistema energetico fossile alimenta (dall’assenza di democrazia negli Stati ricchi di fossile al lavoro schiavo e minorile connesso all’estrazione del fossile o alla sua trasformazione per il consumo), Dilatando lo “scambio ecologico diseguale” tra Nord e Sud del mondo. Eppure non rinunciamo radicalmente a questi “stili” di libertà. Molte volte ignoriamo persino di essere comunque parte attiva dell’ “emergenza climatica“. Un simile paradosso delinea una vera e propria “cecità sistemica“, conseguente alla “contraddizione fossile” in cui vivono le nostre libertà costituzionali: noi esercitiamo innumerevoli libertà materiali, ben oltre il mero bisogno di sopravvivenza (come ricorda la riflessione di Agnes Heller sui bisogni quale specchio della produzione di consumo), eppure “non vediamo” queste libertà come parte del problema climatico. Addirittura accettiamo il problema (nella logica da Guido Calabresi stigmatizzata del “dono dello spirito maligno“: una libertà materiale, anche se dannosa alla vita, è pur sempre un vantaggio da sfruttare).
Costi sistemici
Cogliamo così il terzo profilo di approfondimento: le ragioni strutturali che ci impediscono di approfondire la drammaticità della situazione in atto. Avere libertà è bello. Ma il costo sistemico (naturale e sociale) della loro acquisizione è stato altissimo per l’intero sistema terra. Alain Badiou (ne Il secolo, 2005) ha descritto il Novecento costituzionale europeo come una «procedura discorsiva di assoluzione» verso i Sud del mondo e verso la natura, sfruttati nell’estrazione di energia. In due secoli e mezzo, il mondo ha perso biodiversità naturale, culturale e sociale come mai prima. Oggi, questo è un dato certo, certificato, tra l’altro, dalla c.d. “equazione dell’Antropocene” di W. Steffen.
Ma oggi, di questa certezza, proprio i giovani iniziano ad avere consapevolezza di rappresentare le prossime vittime. Nei ragazzi di “Friday for Future” si specchia la cattiva coscienza del costituzionalismo fossile.
Che fare? Siamo alla quarta linea di approfondimento. L’ “emergenza climatica” mette in discussione non tanto un “modello” di produzione, come vuole l’idea della “crisi” climatica (non a caso cara anche al grande capitale finanziario), né una semplice visione “morale” dell’essere dell’antropocene. Mette in discussione un “sistema” di convivenza costituzionalizzato intorno alle libertà materiali del “benessere“. La sua soluzione, pertanto, non può essere solo tecnica o morale. Impone una rivoluzione politica e costituzionale. Agli insegnanti spetta discutere di questo con gli studenti.
I docenti dei conflitti generazionali novecenteschi discutevano politiche rivoluzionarie di rottura sociale. Quelli del nuovo millennio devono abituarsi a discutere politiche rivoluzionarie di rinuncia nei riguardi del nostro vivere in “contraddizione fossile“, studiando a fondo i mille volti dell’ “emergenza climatica“.
*Ordinario di Diritto costituzionale comparato e Diritto climatico nell’Università del Salento – Lecce-
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