C’era una volta

È il momento giusto per ripristinare ed ampliare il Tempo pieno

photo credits: Stefanos Papachristou on Flickr

Esiste oggi la scuola a Tempo pieno? Non è facile rispondere a questa domanda, soprattutto se ci chiediamo cosa sia la scuola a Tempo pieno oggi.

Le statistiche dicono di sì, anzi, dicono che è in crescita. I dati del ministero segnalano che nell’a. s. 2015-16 il 34,06 % dei bambini di scuola primaria seguiva il modello a 40 ore, mentre nel 2017-18 la percentuale era salita al 35,43 %. Dietro questi dati medi nazionali sono poi presenti le grandi disparità geografiche tra il Nord – che conta la maggioranza delle sezioni – e il Sud Italia: nel 2017-18 il Sud e le Isole insieme coprono solo il 16,1 % degli alunni che frequentano la scuola a 40 ore [Portale Unico dei Dati della Scuola, MI].

Ma i dati statistici a volte non ci spiegano bene cosa viene contato, così questi numeri nascondono alcuni tra gli aspetti più interessanti della questione e non a caso parlano di “40 ore” e non di “Tempo pieno”. Che differenza c’è tra queste due definizioni? Cosa sono oggi le 40 ore considerate dalle statistiche e cos’è il Tempo pieno?

 

Quando nasce

Per capirlo bisogna fare un passo indietro e vedere in breve la storia di questo modello scolastico. Il Tempo pieno infatti è un modello pedagogico-didattico e organizzativo che si è affermato sulla spinta di lotte per un ampliamento del tempo scuola. Negli anni Sessanta la selezione scolastica era fortissima e per contrastarla prese forza l’idea che una permanenza a scuola più estesa nel tempo potesse fornire stimoli educativi maggiori ai bambini e alle bambine che a casa avevano meno opportunità, riducendo così il gap con le famiglie agiate. Il Tempo pieno quindi divenne uno degli obiettivi prioritari delle mobilitazioni cresciute attorno al Sessantotto perché inteso come lo strumento essenziale per garantire il diritto allo studio delle classi lavoratrici.

Tale rivendicazione però non si riduceva alla semplice richiesta di estensione oraria: il Tempo pieno infatti veniva considerato in contrapposizione netta con l’esperienza dei doposcuola e dei “ricreatori”, estensioni del tempo scuola destinate solo alle classi popolari – quindi perfette per creare dei ghetti – e finalizzate solo allo svolgimento dei compiti e all’accudimento dei bambini nel pomeriggio. Il modello a Tempo pieno univa alla valenza sociale di liberare i genitori – e in particolare le madri – dall’impegno pomeridiano dell’accudimento aprendo loro possibilità lavorative che erano anche occasioni di emancipazione, l’offerta di una scuola diversa a tutti gli effetti, con la classe completa, con attività curricolari anche al pomeriggio, con un programma didattico ampliato carico di attivismo, di lavori di gruppo, di centralità dei bambini.

Dopo una prima fase di lotte spontanee e di iniziative sostenute da alcune amministrazioni comunali, la L. n. 820/1971 diede la possibilità di ampliare le esperienze e di aprire un numero sempre maggiore di sezioni organizzate in questo modo. Per tutti gli anni Settanta e Ottanta la crescita rimase molto forte e l’esperienza pedagogico-didattica produsse un’ampia mole di studi, esperienze, convegni. Questa effervescenza di iniziative costituì uno degli ingredienti più importanti per l’elaborazione di molti aspetti innovativi della riforma della scuola elementare, che trasformò il modello da sperimentale a strutturale: 40 ore con mensa e con due docenti contitolari della classe che disponevano di 4 ore aggiuntive di compresenze per organizzare attività di gruppo, recuperi, aperture di classi e sperimentazioni didattiche. Eppure, proprio nel momento di maggiore affermazione del modello (che copriva circa un quarto delle sezioni della scuola elementare), il ministero decise di bloccare l’organico di insegnanti dedicato ad esso e quindi di negare l’apertura di nuove sezioni nonostante la grande richiesta proveniente dai genitori: l’ottica di riduzione della spesa prevaleva sulla prospettiva di accompagnare la crescita del Tempo pieno e la sua diffusione sul territorio nazionale.

 

Quando viene attaccato

Con la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio si affermò progressivamente una nuova stagione politica caratterizzata – da Destra – da un attacco frontale a questo modello di scuola considerato l’emblema di uno Stato troppo presente nell’istruzione, mentre – da Sinistra – subentrò un atteggiamento di rinuncia a difendere il modello in quanto considerato troppo rigido rispetto alle idee di scuola circolanti nella società neoliberista che si andava affermando.

Dopo le prime ambigue proposte di Berlinguer fu la ministra Moratti che ne propose esplicitamente l’abolizione, suscitando un forte movimento di opposizione di genitori e insegnanti che riuscì a vanificare il progetto. Lo stesso Cesp in questa occasione si rese protagonista dell’organizzazione di due convegni nazionali a Bologna e partecipò all’organizzazione delle mobilitazioni guidate dal Coordinamento nazionale in difesa del Tempo pieno. Passarono però pochi anni e l’attacco venne riproposto dalla ministra Gelmini su dettatura del responsabile dell’economia e delle finanze Tremonti: così nel 2008 il modello a Tempo pieno venne formalmente cancellato e, insieme ad esso, vi fu il tentativo di trasformazione delle compresenze in ore a disposizione per un utilizzo in qualsivoglia sezione della scuola e spesso da usare per coprire la mancata chiamata dei supplenti. Da quel momento quindi si parlò di “scuola aperta 40 ore”, mentre delle caratteristiche pedagogico-didattiche che costituivano l’essenza del Tempo pieno non si fece più cenno nei documenti ministeriali.

Il fine perseguito con la cancellazione del Tempo pieno non fu solamente legato al risparmio di spesa che inequivocabilmente ne derivò; in aggiunta ad esso infatti la trasformazione mirava alla messa a profitto del tempo scuola che si sarebbe liberato da una generalizzata riduzione oraria: in fondo i genitori, per gestire i bambini nel pomeriggio, se non possono contare su strutture e modelli scolastici pubblici di qualità devono rivolgersi al mercato di baby sitter, cooperative private, società sportive, sostenendo con i loro soldi un mercato fortemente differenziato nelle offerte alle diverse classi sociali. In questo senso quindi la cancellazione del Tempo pieno si trasformava in una perdita di qualità del welfare e in una spinta all’allargamento della forbice sociale, soprattutto tenendo conto del contemporaneo esordio della crisi economica.

 

Perché viene attaccato

Questa idea della Destra di ridurre il tempo scuola, magari facendo abbandonare il lavoro anche ad una quota di donne ormai impossibilitate a conciliarlo con l’accudimento, non ha trovato – come scrivevamo – una critica risoluta nella finta Sinistra, ma semmai un complice silenzio. L’idea di abbandonare il Tempo pieno veniva sostenuta presentandolo come rigido, incapace di adattarsi alle nuove forme flessibili di socialità del presente e alle caratteristiche differenziate delle famiglie. Ne è un esempio la ricerca curata da Cerini nel 2005 che già dava conto del lavoro di erosione che aveva preso corpo di fronte al rifiuto ormai ventennale di concedere l’apertura di nuove sezioni (Idee di tempo. Idee di scuola, 2005). Questa mancata difesa si fonda su un fraintendimento logico: di fronte alle trasformazioni della società occorreva proprio tutelare la cornice organizzativa del Tempo pieno per consentire ai docenti di mettere in discussione in maniera costruttiva le forme della didattica applicate al suo interno. La cornice del Tempo pieno infatti era la garanzia della sua libertà, della possibilità di sperimentare nuove formule didattiche. Una volta fatta saltare la cornice il progetto pedagogico diventava la variabile dipendente: se ho 5 docenti che si alternano frammenterò la didattica; se ho solo 36 ore taglierò la didattica; se ho nel pomeriggio una cooperativa di educatori a pagamento tornerò al doposcuola anni Sessanta quando dopo pranzo i bambini delle famiglie bisognose rimanevano a scuola a fare i compiti; se a pranzo subentrano gli educatori il momento del pasto e della ricreazione cesserà di fare parte del progetto educativo e si trasformerà in semplice alimentazione… Questa è la flessibilità distruttiva che si è affermata a partire dall’inizio del nuovo millennio, presentata come maggiore aderenza alle richieste delle famiglie e del territorio ma in realtà effetto del disinvestimento su un modello che costava di più e che sottraeva tempo dell’infanzia alla compravendita.

Così oggi il modello di scuola erede del Tempo pieno risulta indefinibile. Esistono invece molte forme diverse di sezioni elementari aperte 35, 36, 38 o 40 ore senza compresenze, senza doppia titolarità, affidate ad una pletora di docenti ognuna con poche ore (fino a 7 per classe) oppure affidata a un mix tra docenti statali ed educatrici sottopagate di cooperative che assistono ai pasti o alle attività di alcuni pomeriggi. Ciò che è più grave è che questa frammentarietà e disorganicità viene ancora spacciata da molti osservatori superficiali della scuola per flessibilità positiva; chi insegna in queste classi si trova invece costretto a cercare di attuare strategie didattiche ed organizzative acrobatiche per tentare almeno di ridurre il danno rispetto ai fortissimi elementi di secondarizzazione e di frammentazione dei tempi. Oramai i cosiddetti “tempi distesi” a misura di bambino sono purtroppo solo un lontano ricordo.

 

Perché ha senso una battaglia per il Tempo pieno

Eppure non è molto difficile capire quanti elementi spingerebbero a favore di un ripristino del Tempo pieno. La trasformazione delle forme del lavoro negli ultimi decenni ha precarizzato ogni occupazione rendendo sempre più arduo per i genitori l’accudimento dei figli e l’organizzazione del loro tempo libero durante la giornata. La situazione è anche più grave per coloro che hanno perso il lavoro o che vivono di occupazioni saltuarie e rapidamente mutevoli. Nelle città gli spazi sociali di gioco per i bambini e le bambine sono diminuiti drasticamente e la loro fruizione collettiva comporta un grande impegno degli adulti, che in molti casi finiscono per rinunciare a garantire momenti di ricreazione sociale spontanea optando per i corsi sportivi combinati all’uso casalingo degli smartphone.

In questa situazione un modello scolastico che garantisce una frequenza di otto ore al giorno, che offre tempi quotidiani di socialità e di gioco, che attraverso le compresenze permette ai docenti di articolare interventi di arricchimento, attività a gruppi o interventi di sostegno, diventa una risorsa preziosa. I costi economici di un tale investimento non sono nemmeno paragonabili al beneficio sociale ed educativo che ne potrebbe derivare.

Le storiche mobilitazioni per l’estensione e poi per la difesa del Tempo pieno hanno sempre reclamato di attivare il modello “ovunque genitori e docenti ne facessero richiesta”. Oggi che l’Europa ha predisposto un finanziamento – Next generation Eu – pensando proprio alle giovani generazioni sarebbe miope non riprendere in mano questa rivendicazione. Si tratta prima di tutto di sanare le situazioni di tempo scuola di 35-40 ore con l’attribuzione della doppia titolarità e della compresenza; in seguito, progressivamente, di riprendere il processo espansivo di questo modello di scuola interrottosi negli anni Novanta, investendo parallelamente sugli edifici e sulle zone verdi cittadine.

Una scelta di questo tipo evidentemente andrebbe contro i sostenitori del neoliberismo che dallo sfaldamento della società e dalla lotta di tutti contro tutti traggono le proprie opportunità di profitto. Solamente se i soggetti che hanno interessi convergenti in questo progetto – genitori-lavoratori e insegnanti – sapranno coalizzarsi si potrà creare quella spinta indispensabile per modificare i pessimi equilibri esistenti, che in fin dei conti sono quelli che hanno condotto alla situazione presente.