Durante il lockdown gli italiani hanno constatato come sia complicato occuparsi per un’intera giornata dei propri figli (ci riferiamo, in particolare, agli allievi che frequentano i segmenti che vanno dall’Infanzia alla Secondaria di Primo Grado) e hanno verificato quanto siano complessi i processi di crescita, troppe volte colpevolmente delegati ai docenti: insomma, hanno riscoperto la scuola e chi vi lavora. I docenti, per la prima volta da tanto tempo, sono stati generalmente apprezzati per la disponibilità dimostrata e la capacità di mantenere con gli alunni una relazione, se non didattica, quantomeno educativa. La maggior parte degli insegnanti, attraverso la cosiddetta Didattica a Distanza (DaD), ha sicuramente profuso un impegno notevole, soprattutto per la quantità di ore quotidiane passate davanti ai computer e nella preparazione dei materiali, rispetto al “tempo normale”, e questo è stato loro riconosciuto. Certo, va rilevato che per molti aspetti (salario regolarmente percepito, limitazione dei pericoli di contagio) si è trattato di una categoria “protetta”. Ciononostante, il successo presso l’opinione pubblica è stato palpabile.
Sarebbe allora il caso di partire da questo successo per rilanciare la scuola pubblica statale, rispetto alla quale, come è accaduto per la Sanità, solo con l’emergenza ci si è resi conto delle difficoltà in cui versa. Un arretramento, in entrambi i casi, determinato innanzitutto dalla progressiva riduzione degli investimenti. Per la scuola basta ricordare gli oltre 8 miliardi di euro tagliati ai tempi della Gelmini, che oggi, peraltro, si erge a paladina del diritto allo studio!
Il patrimonio edilizio
Partiamo dagli aspetti concreti. Lo stato degli edifici scolastici versa in pessime condizioni: la maggior parte delle scuole è dotata di locali costruiti da oltre 50 anni, spesso sprovvisti di molte certificazioni necessarie. In sostanza, il punto non è quello di ritornare a “prima della pandemia”, ma, al contrario, di non riproporre quel modello. È pensabile ipotizzare una sorta di new deal? Dal punto di vista materiale sicuramente sì, innanzitutto riducendo il numero di alunni per classe. Eppure le scelte del governo Conte-Azzolina per il prossimo anno scolastico hanno purtroppo confermato, nella formazione delle prime classi di ogni ordine e grado, i precedenti indici di affollamento, con grave nocumento per la sicurezza e per lo stesso lavoro didattico. Se non ora, quando si sarebbe dovuto promuovere un piano nazionale per recuperare e ristrutturare in ogni città tutti quegli edifici dismessi e destinati a un progressivo degrado? Si tratta peraltro di un progetto che permetterebbe un miglioramento degli standard urbanistici, buona occupazione (contribuendo alla ripresa dell’economia) e determinerebbe un salto di qualità dello stesso patrimonio scolastico: altro che la farsa renziana delle “scuole belle”.
Supponenza ministeriale
La riqualificazione del patrimonio edilizio dovrebbe essere accompagnato da un’innovativa riflessione sulla didattica. Anche qui, però, il governo si muove nella direzione sbagliata. Infatti, nonostante la DaD abbia ampiamente dimostrato che nessuna piattaforma può essere minimamente paragonata al lavoro in presenza, perché – come avrebbe voluto dire la Ministra (quando si è confusa e ha parlato di imbuti) – i ragazzi “non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere”, gli esperti del Ministero, supportati dai grandi gruppi che dominano la rete, vorrebbero rendere curricolare questa modalità di lavoro o, almeno, articolare la giornata scolastica, soprattutto nella scuola secondaria di secondo grado, in parte in presenza e in parte a distanza. Su questo punto il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione ha formulato esplicite critiche alle Linee Guida per la Didattica Digitale Integrata, sostenendo che: “Non sono evidenti quali siano i fondamenti culturali, normativi, pedagogici e metodologici; conseguentemente le misure presenti […] rischiano di apparire del tutto incongrue e immotivate con effetti invasivi dell’autonomia scolastica e professionale”. Ancora: “Risulta di difficile comprensione in cosa dovrebbero consistere le attività sincrone se non in una trasposizione della lezione svolta in classe” e, infine: “La metodologia didattica non è innovativa quando utilizza degli strumenti digitali (può essere addirittura conservativa o restauratrice di pure modalità trasmissive) e non è vero che la video-conferenza favorisca metodologie in cui gli alunni siano più protagonisti”. Inoltre, aggiungiamo noi, è grave che il Ministero non abbia sviluppato nessuna riflessione sul fatto che la forzata chiusura delle scuole abbia contribuito ad allargare le differenze sociali, visto il numero di studenti, soprattutto nel meridione, che, per motivi economici, sono stati tagliati fuori dalla DaD. Anche in questo caso, non si tratta, però, di rivendicare soltanto che la scuola si faccia esclusivamente in presenza. Riproporre il modello pre-pandemia significherebbe, infatti, ritenere che le cose prima funzionassero. E questo non è vero.
Insegnare a porre domande
A partire dalla cosiddetta Autonomia (fine anni ’90) la scuola e la maggior parte dei docenti hanno infatti progressivamente rinunciato a puntare su conoscenze e conseguente sviluppo dello spirito critico dei/delle discenti, contrapponendo strumentalmente la pratica alla riflessione, non riconoscendo che nulla è più concreto di una buona teoria ed esaltando la “didattica delle crocette” (Invalsi docet), che addestra a dare risposte, ma non insegna, né potrebbe farlo, a porre domande. Una logica certamente coerente con l’idea di una società che ha fatto, per la maggior parte dei giovani, della precarietà (del continuo cambiamento di lavoro) la cifra essenziale dell’esistenza, definendola addirittura un’opportunità. Un’idea di scuola che, in questa prospettiva, potrebbe fare progressivamente a meno degli insegnanti, sostituiti da programmatori capaci di elaborare test e quiz e da “verificatori” che, in possesso delle corrette griglie di valutazione, si limiterebbero, meglio da lontano, a fornire i risultati. Come ha detto Simona La Spina, in un recente convegno CESP, “ci si è sempre più allontanati da un’idea di scuola organica e pedagogicamente fondata che riconosca centralità ai contenuti e alla didattica, dirigendosi invece verso una vuota ‘scuola delle competenze’, che mira ad allenare studenti, forse competenti e diligenti, ma impreparati e incapaci di esercitare un pensiero critico, di interpretare la complessità del reale. Una scuola per la quale interpretare un testo è un’operazione meccanica di smontaggio e rimontaggio di pezzi sempre uguali, operazione alla quale il docente (il coach) deve allenare e addestrare i propri allievi”.
Proposte di buon senso
In un quadro generale nel quale neanche i cosiddetti esperti sono in grado di delineare con chiarezza gli scenari futuri, alcune richieste di buon senso dovrebbero essere messe al centro della riflessione e delle conseguenti scelte organizzative per l’inizio del nuovo anno scolastico.
Formare classi di non più di 15 alunni, assicurando un adeguato distanziamento e condizioni igieniche di sicurezza e costruendo gruppi nei quali è possibile articolare il lavoro didattico garantendo, al contempo, il confronto collettivo e l’individualizzazione degli apprendimenti. Non lo si è fatto con l’organico di diritto, occorre porre immediatamente rimedio con quello di fatto. Ovviamente, tutto ciò comporta la necessità di significative assunzioni di docenti e ATA, altro che i nuovi precari del Covid di cui parla la Ministra, personale assunto a tempo determinato che, nel caso di un nuovo lockdown, verrebbe immediatamente licenziato.
Ridare la parola ai Collegi Docenti (troppo spesso silenti e distratti) che, a partire dalla riflessione sui vuoti, culturali e relazionali, prodotti dalla DaD, senza delegare le decisioni ai Dirigenti Scolastici, devono confrontarsi e riprogrammare il lavoro, consapevoli della centralità della scuola e della necessità di una reale apertura verso la società. Non parliamo, ovviamente, né della ricerca di spazi esterni, né di affidare improbabili compiti didattico-educativi a esponenti del cosiddetto terzo settore. Occorre ricostruire un rapporto che permetta alla scuola da un lato di farsi attraversare dai problemi sociali per indagarli e contribuire ad affrontarli, dall’altro di essere essa stessa oggetto di riflessione esterna per diventare parte fondamentale di un percorso di cambiamento. Un processo urgente e necessario viste le fragilità messe in luce dalla pandemia. In sostanza c’è bisogno di una scuola che, come è stato scritto, sia in grado di connettersi sentimentalmente con l’intera società.
Infine, occorre evitare che scoppi l’ennesima “guerra fra poveri”. Da un lato i genitori che non potrebbero recarsi al lavoro se il tempo scuola venisse ridotto, dall’altro i lavoratori della scuola preoccupati per un’eventuale diffusione dei contagi. In parte il problema verrebbe risolto se si producessero i cambiamenti materiali precedentemente indicati. Però, anche ottenendo le suddette trasformazioni (e occorre che si mobilitino tutti, e non solo chi è a scuola, perché ciò avvenga) rimarrebbe il problema dei cosiddetti lavoratori fragili, che non possono/devono essere esposti a rischi. Rispetto ai docenti, per esempio, non avrebbe alcun senso occuparli attraverso la DaD. Per i più anziani, e solo su domanda individuale, si potrebbe pensare al pensionamento, garantendo loro tutti i diritti che avrebbero maturato in una situazione normale. Gli altri, senza parlare di inidoneità al lavoro (sarebbe del tutto fuori luogo), potrebbero essere temporaneamente sostituiti da supplenti, in attesa che maturino le condizioni per un rientro a scuola in sicurezza.
Il 25 giugno scorso in oltre 60 città italiane lavoratori della scuola, genitori, educatori e studenti hanno risposto all’appello di Priorità alla Scuola e hanno manifestato perché il diritto all’educazione e all’istruzione venga garantito a tutte e tutti. Una mobilitazione che deve crescere e proseguire, perché il futuro della scuola riguarda l’intero Paese.
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