“A La Spezia uno studente di 17 anni, impegnato in un progetto di ASL all’interno di una ditta di revisione di motori nautici e industriali, si è ribaltato dopo essere salito a bordo del muletto (per il cui uso sarebbe richiesto il patentino); ha perso il controllo del mezzo ed è rimasto schiacciato sotto il carrello elevatore; in ospedale lo studente è stato ricoverato e sottoposto a un delicato intervento chirurgico per la frattura scomposta della tibia con una prognosi di 40 giorni” (ottobre 2017).
Eravamo stati facili profeti nel Vademecum Cobas sull’ ASL del novembre 2017 nel segnalare i rischi per la sicurezza degli studenti impegnati in attività lavorative. Le tragiche sorti di Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, studenti di 18 e 16 anni, deceduti a meno di un mese di distanza mentre svolgevano stage lavorativi nell’ambito della formazione professionale, si inseriscono nella lunga “Cronaca di una morte annunciata”. In Italia nel 2021 abbiamo avuto più di 3 morti al giorno sul lavoro e negli ultimi 30 anni è sempre stato così, salvo i periodi di crisi, in cui si muore meno solo perché si produce meno.
Perché in Italia si muore tanto sul lavoro? In genere, le cause vengono cercate nella mancanza di formazione e di cultura della formazione, spesso scaricando la colpa sui lavoratori; qualcuno si arrischia ad evidenziare che la sicurezza costa e che risparmiare sulla sicurezza procura profitti. In realtà, tale fenomeno è strutturale nella versione nostrana del capitalismo neoliberista che ha caratterizzato gli ultimi 40 anni. Nella competizione globale le imprese italiane hanno puntato a ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto più con la riduzione dei salari che con l’aumento della produttività del lavoro o della qualità dei prodotti. Da qui la massiccia precarizzazione del lavoro, sia con la miriade di contratti atipici (che da tempo sono la regola e non l’eccezione) che con la crescente libertà di licenziamento anche per i lavoratori a tempo indeterminato. Una politica del mercato del lavoro che, in perfetta continuità tra governi di centro sinistra e di centro destra, inizia con il pacchetto Treu del 1997 passa per la riforma Biagi del 2003, per la riforma Fornero del 2012 fino al Jobs Act del 2015. L’inversione di rotta della politica di bilancio dell’UE con il Recovery Plan, la spesa pubblica in deficit finanziata con gli Eurobond e il massiccio ricorso all’indebitamento statale, il PNRR non ha invertito tale tendenza, ma paradossalmente l’ha rafforzata. Ben l’80% dei nuovi occupati del 2021 sono assunti con contratti a termine (434mila lavoratori precari in più su 540mila nuovi assunti – dati Istat). Il rapporto tra precarietà e insicurezza sul lavoro è strettissimo, perché un lavoratore precario o facilmente licenziabile che vede un pericolo sul lavoro non lo denuncia se teme di non veder rinnovato il proprio contratto o se sa che alla prima occasione può essere licenziato e, anche se vince il ricorso, nella stragrande maggioranza dei casi ottiene solo un risarcimento del danno e perde comunque il lavoro. Le morti sul lavoro nascono dalla crescente diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori.
In un contesto del genere, mandare degli studenti a lavorare è di una gravità inaudita da un punto di vista non solo politico, ma anche etico! Ma l’ASL (o PCTO come si chiama adesso), insieme agli stage gratuiti e al sotto inquadramento degli apprendisti, costituisce una nuova frontiera del mercato del lavoro, che va anche oltre la precarizzazione: lo scambio non è più tra forza lavoro e salario, ma tra lavoro e formazione, reale o presunta che sia. Spesso si tratta di lavoro gratuito tour court, un ossimoro anche da un punto di vista costituzionale. L’art. 36 Cost. prevede,infatti, che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione, “proporzionale alla quantità e qualità del lavoro e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
La funzione valoriale dell’ASL è evidente: l’obiettivo non è solo quello dell’assimilazione della cultura d’impresa con la condivisione dei fini imprenditoriali, in particolare della logica della gerarchizzazione, ma anche l’accettazione fin dai 16 anni dell’idea che se ti offrono l’occasione di lavorare e di formarti ti stanno facendo un favore! L’effetto voluto è quello di formare i giovani all’idea di un lavoro senza diritti!
Inoltre, la formazione aziendale, anche quando è effettiva, si caratterizza per l’apprendimento rapido di nozioni o saper fare decontestualizzati, da smettere rapidamente per acquisire altre competenze analoghe, come è tipico di una forza lavoro flessibile e precaria. Si iscrive, pertanto, pienamente nella didattica delle competenze addestrative che caratterizza sempre più la scuola e che ha già prodotto un livello elevato di analfabetismo cognitivo. La scuola pubblica, invece, ha bisogno di puntare, ancora di più dinanzi alle minacce e alle opportunità della digitalizzazione, allo sviluppo degli strumenti cognitivi: la capacità di cogliere i nessi, di sviluppare una visione d’insieme dei fenomeni, di analizzare i singoli tasselli di sistemi con diversi livelli di complessità, di contestualizzare. In sintesi, bisogna tornare al ruolo che la Costituzione assegna alla scuola, che deve formare un cittadino che sia in grado di inserirsi nel mondo del lavoro, ma anche di capire per chi, come, con quali fini e in quale contesto produce.
Il movimento studentesco con una serie di mobilitazioni, i Cobas con lo sciopero e le manifestazioni del 28 gennaio hanno chiesto la sospensione delle attività di PCTO e stage e di avviare un dibattito tra tutte le componenti della comunità scolastica, con la prospettiva o dell’abolizione tout court ( fino a 18 anni si va a scuola e la formazione aziendale si fa dopo) o della possibilità di lasciare alle singole Istituzioni scolastiche la scelta se svolgere o meno tali attività e per quanto tempo.
Ma se dalla mera denuncia vogliamo risalire alle cause strutturali dei fenomeni dobbiamo alzare ancora di più lo sguardo: l’ossimoro del lavoro gratuito è un ulteriore segnale che si è rotto il rapporto tra lavoro e reddito, tra lavoro e diritti che ha caratterizzato il capitalismo novecentesco. Tale rottura va inquadrata nella crisi della legge del valore-lavoro, di cui parlava Karl Marx nel celebre Frammento sulle macchine dei Grundisse. Con l’aumento tendenziale della parte di capitale investito nei mezzi di produzione rispetto a quella investita nella forza lavoro arriveremo – preconizzava Marx – ad una fase in cui il tempo di lavoro necessario per produrre un’unità di merce sarà ridotto al minimo e, di conseguenza, il valore di scambio delle merci non potrà più essere determinato dal tempo di lavoro necessario a produrle. La robotizzazione e l’informatizzazione della produzione, insieme al toyotismo come organizzazione del lavoro, a partire dagli anni 80 del 900, hanno reso effettiva e attuale la tendenza individuata da Marx nella dinamica del capitalismo, a sua volta determinata dal conflitto di classe e dalla concorrenza tra i capitalisti. Ma quello che vale per le merci in generale vale anche per quella merce particolare che è la forza lavoro: il tempo di lavoro necessario per produrre i beni di sussistenza non è più il criterio che determina il valore della forza lavoro. Si rompe qui il rapporto deterministico tra tempo di lavoro e salario e tra salario e lavoro che caratterizza il capitalismo novecentesco. Ma la strada percorsa ci porta sempre almeno ad un bivio. Il lavoro gratuito e senza diritti è una delle risposte capitalistiche in un periodo in cui, come diceva con un felice espressione Luciano Gallino, la lotta di classe la fa quasi solo il capitale. Qui prevale ancora la logica del profitto e della valorizzazione del capitale. Invece, dal punto di vista di chi si pone l’obiettivo del superamento dei rapporti sociali capitalistici, due obiettivi, che registrano la rottura del rapporto tra lavoro e salario, sono di bel nuovo la riduzione del tempo di lavoro a parità di salario e il reddito effettivamente universale. In questo caso, l’enorme capacità di produrre ricchezza che il capitalismo evoca (e al tempo stesso blocca con le sue contraddizioni) sarebbe usata per la soddisfazione dei bisogni, nella logica del movimento del valore d’uso. Al tempo stesso si ridurrebbe il divario tra capacità produttiva e potere d’acquisto dei lavoratori, evitando le crisi di sovrapproduzione. Ma, come sempre, la comprensione illuministica dei fenomeni non è sufficiente per imporre delle svolte. Occorre quello che purtroppo langue: il conflitto come strumento per la trasformazione sociale.
Commenti recenti