Fondata sulle competenze

La Repubblica dell’OCSE, dalla “Buona Scuola” al Jobs Act

Il rapporto dell’OCSE, “Strategia per le Competenze. Italia, 2017”, pubblicato lo scorso ottobre, ha il pregio di chiarire la relazione sistemica tra i tumultuosi e recenti cambiamenti del nostro apparato scolastico e il quadro più generale delle scelte politiche e delle riforme economico-sociali. Scopo del documento OCSE, così come di quelli del MIUR, che ne condividono l’impianto nonché la retorica, è di costruire un senso comune, di fare apparire come evidenti e ovvie soluzioni problematiche in realtà molto complesse, evitando confronti scomodi e facendo uso disinvolto di dati statistici e ipotesi “scientifiche”. Se ancora ci fosse qualche dubbio sul nesso economia – lavoro – educazione nelle recenti politiche del nostro Paese, il rapporto OCSE lo cancellerebbe definitivamente, definendo una nuova razionalità, sintetizzata nel concetto di “competenza” che, in maniera semplice e brillante, assicura l’equivalenza tra produzione culturale e risorse umane impiegate nella realtà produttiva. Le competenze sono l’interfaccia porosa tra Istruzione e Impresa.

 

Le competenze: opacità e ambiguità

Il rapporto non fa mai riferimento ad una competenza contestualizzata o precisa: lo stesso termine è usato per indicare una competenza scolastica, quanto una lavorativa. Il concetto rimane in tutto il documento presupposto e non spiegato; risulta impossibile, ogni volta che esso viene citato, poterlo identificare con un’azione e un’abilità specifica. È come se le “competenze” fossero dotate di realtà autonoma e oggettiva. Di esse l’OCSE documenta la costruzione dall’infanzia fino all’ingresso (intermittente, data la precarietà strutturale) nel mondo lavorativo.

Il rapporto, dal carattere squisitamente politico, parte da una fotografia dello stato attuale dell’educazione e dell’economia italiane e indica la strategia da seguire per la ripresa: attuare politiche di promozione delle competenze. Le ambiziose riforme intraprese dal governo, preparano il solco della risalita. Ma è necessario renderle più efficienti e cogliere le opportunità che esse offrono. La “Buona Scuola” con l’Alternanza Scuola Lavoro (ASL) e il Piano Digitale, il Jobs Act, Il Piano Nazionale Industria 4.0, sono le pietre miliari su cui costruire la credibilità internazionale dell’Italia. La Scuola, secondo l’OCSE, formerà allievi competenti e flessibili che potranno finalmente essere inseriti, a vario titolo, nel mercato del lavoro riformato dal Jobs Act. Un mercato globalizzato e destrutturato, da cui entrare e uscire riadattandosi perennemente, grazie al life long learning, che permetteranno la riqualifica di competenze obsolete o di basso livello. Su questo, in misura diversa, concordano gli stakeholders (rappresentanti delle imprese, dei lavoratori, dell’istruzione, degli istituti di ricerca e del governo) coinvolti. A ben vedere questi rappresentanti evidenziano una comunanza di vedute e obiettivi e, soprattutto, come ormai consueto in simili documenti, nessuno di essi appartiene dal mondo scolastico: 200 persone, di cui solo 17 appartengono al mondo dell’Istruzione e della Ricerca Pubbliche).

 

La “rivoluzione” dell’OCSE

Se in passato il compito dell’istruzione scolastica era quello di risvegliare e sviluppare le facoltà di riflessione in generale, senza doverle impiegare in nessun compito di tipo professionale, le crisi del sistema economico che, a partire dagli anni ‘90, si susseguono con varie modalità, inaugurano un nuovo discorso sul tema dell’istruzione. Il far leva sulla crisi economica e sul drammatico tema della disoccupazione giovanile produce un indubbio effetto comunicativo sull’opinione pubblica, richiamata a un rassicurante “principio di realtà”, fondato su solide basi pratiche, da contrapporsi alla aleatorietà e alla spontaneità della didattica consueta. Proprio la disoccupazione giovanile, strutturale e di massa diventa Il tema centrale, dominante delle politiche dei sistemi educativi occidentali. La disoccupazione diventa, essa stessa, una “struttura pedagogica”. Un esercizio educativo ad abbassare il livello delle aspettative, per disciplinare masse sommariamente scolarizzate. L’insegnamento comincia ad essere concepito non come uno strumento di emancipazione, ma come strumento di lotta alla disoccupazione. La società chiede – ed ha diritto a farlo – che la Scuola formi allievi competenti. Un’affermazione all’apparenza ovvia, se non superflua. Chi mai potrebbe ritenere che la scuola formi alunni incompetenti. Ma cosa si intende per competente? E quali sono le competenze richieste? In quale contesto? In quale gruppo sociale? Per quale sistema economico? Il testo in esame, non fa certamente chiarezza, perché mai riesce a concretizzare la “competenza” in una prassi specifica, richiamata sì in continuazione come un mantra, senza però che se ne illustrino i contenuti.

Sarebbe questa la rivoluzione copernicana dell’OCSE. L’aver spostato l’attenzione in maniera originale, empirica e descrittiva, dai contenuti dell’insegnamento ad un ristretto gruppo di “abilità, attitudini, capacità” piuttosto trasversali – le cosiddette basic skills – irrinunciabili nella società della conoscenza. Queste competenze sono “misurabili” attraverso la capacità di rispondere a quesiti opportunamente costruiti, sempre ai tavoli dell’OCSE: i test PISA.

 

Gli insegnanti, commessi del capitale umano

È agli insegnanti, in primo luogo, che si chiede di “ottimizzare” il prodotto sociale e cognitivo del nostro paese: le competenze. Da qui la totale rimodulazione del loro bagaglio professionale. È questa a nostro parere l’autentica rivoluzione, per quanto passiva e regressiva, che si è realizzata nella scuola: avere demolito alcuni pilastri che si consideravano irrinunciabili nella pratica didattica. A partire dal primato delle conoscenze e dell’organizzazione disciplinare che, fino agli anni 1990-2000, non era mai stato messo in discussione. Oggi, le riforme diventano “di tipo pedagogico”, curricolari. Le difficoltà del sistema-scuola non sono più percepite come “strutturali”, ma si trasformano in un problema di contenuti e metodi insegnamento. Il percepito è che la responsabilità della perpetua inefficienza sia a carico degli insegnanti, non più dello Stato. Si scordano i tagli operati da Tremonti-Gelmini, la precarizzazione dei lavoratori della scuola, la riduzione di ore di lezione, discipline e compresenze, quel “senso di ristrutturazione permanente” che ha segnato gli ultimi 20 anni.

Introducendo concetti opachi quali abilità, attitudini, competenze con un lessico che occhieggia alla pedagogia attiva, non resta che modificare, decreto dopo decreto, la natura della pratica professionale degli insegnanti. Le classifiche dei test PISA e INVALSI, di immediato impatto sociale e pubblico, diventano lo strumento che legittima la necessità di cambiamento. Gli esiti dei test, costantemente indicati quali dati probanti, vengono nel documento utilizzati con criteri assai variabili, a seconda della convenienza. Si sottolineano a volte i dati insoddisfacenti dei nostri studenti sul piano internazionale, per poi, altrove, mettere in evidenza l’eterogeneità di quegli stessi risultati su scala nazionale, senza però trarne conclusioni coerenti. Come spiegare che nei test un quindicenne trentino si posiziona come un suo coetaneo finlandese, mentre un quindicenne campano al livello dell’Argentina? Per noi, ciò evidenzia che dove le condizioni socio-economiche e il tessuto culturale e sociale di riferimento sono favorevoli, la Scuola funziona, e anche molto bene. Da ciò dovrebbe scaturire la pianificazione politica di strategie di intervento adatte a quei territori in cui la scuola subisce, non genera, situazioni di effettivo disagio. Secondo i tecnici delle statistiche sull’istruzione, è il sistema educativo nel complesso che non funziona; i risultati dei test, presentati come neutri e scientifici, delegittimerebbero le pratiche (e i valori) degli insegnanti, i quali dovrebbero essere allora diretti e controllati da tecnici e esperti esterni.

 

L’ASL

Le aspettative e gli interessi in gioco in questo “nuovo modello di formazione obbligatoria” sono molteplici: far dialogare scuola e imprese, sensibilizzare i giovani alle aspettative e richieste della realtà produttiva. ASL come modello universale: pedagogico, sociale, politico.

Nessuno sottolinea, invece, che la vera questione sociale, cioè di classe, emerge ulteriormente nei percorsi di ASL. Laddove il tessuto produttivo o le reti di scuola e famiglie garantiscono opportunità e conoscenze, si svolgeranno determinati percorsi. Per coloro che provengono da famiglie meno abbienti o immigrate, dalle periferie o da contesti impoveriti le opportunità saranno ovviamente al ribasso.

Che l’ASL non funzioni è opinione pressoché unanime. Scuola e lavoro sono saldati a doppio filo da uno dei dispositivi più “innovativi” del Jobs Act, il nuovo contratto di apprendistato, nel cosiddetto sistema duale scuola-impresa. Si, perchè le mutazioni della scuola hanno un’affinità profonda con il processo di destabilizzazione in atto nel mondo salariale. E la scuola, come ben hanno capito i teorici dell’economia, è un’istituzione pubblica di estrema grandezza, che regola un meccanismo fondamentale della società della conoscenza. Quel meccanismo di cui in Italia, per ora, detiene ancora il monopolio: la certificazione delle credenziali educative. I lavoratori della Scuola, devono essere ben consapevoli di questo. E saper leggere sottotraccia nella frantumazione progressiva dei diritti e dei contratti dei lavoratori, la progressiva destrutturazione e messa in discussione delle credenziali scolastiche.

L’OCSE ribadisce così un’intenzione già più volte incontrata nei documenti del MIUR, quella di espropriare gli insegnanti dei momenti più delicati e qualificanti la loro professionalità, in particolare la valutazione, affidandola a soggetti esterni alla scuola. Lo studente, munito del suo “libretto delle competenze” – finalmente “validato” dalla firma del mondo esterno – si affaccerà, etichettato dal suo “livello di prestazione raggiunta”, nel mondo del lavoro o dell’istruzione terziaria.

Se proprio si vuole attribuire un valore economico alla scuola, questo risiede nelle qualifiche che essa distribuisce. Introdurre elementi esterni nelle qualifiche, significa assistere all’espropriazione di una delle sue funzioni più rilevanti.

 

Per una scuola degli insegnanti

A quella scuola unidimensionale schiacciata sul valore dell’efficienza è più che mai necessario rispondere proponendo un’idea di scuola nuova, che non vagheggi un ritorno al passato elitario e burocratico, ma che delimiti e preservi quella forza simbolica che l’ha tenuta per anni al riparo dai poteri esterni economici e religiosi. Un’idea che rivendichi un registro proprio di efficienza, socialmente neutro, che si basi sulla sua capacità di dotare gli individui di competenze sociali, opinioni, gusti, scelte e giudizi politici liberi. Di cultura nel senso più neutro, laico e vasto del termine. Che salvaguardi la prerogativa della Scuola di giudicare e valutare, i suoi titoli e diplomi, “moneta scolastica” dotata di criteri propri. Che si riappropri di un sistema di riferimento temporale “a lungo termine”, lontano dal tempo proprio dell’economia e del rapporto costi/benefici. Nel nostro quotidiano, noi insegnanti, torniamo a parlare di educazione più che di apprendimento, di evidenze, di risultati.

 

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