photo credits: Třinecké železárny
Dalla pubblicazione del primo opuscolo propagandistico della cosiddetta “Buona Scuola”, ormai nel settembre 2014, ripetiamo che il modello di scuola che questo governo ha in testa è molto distante da quello previsto dalla Costituzione. Renzi & soci pensano a una scuola apparentemente “pubblica”, ma che nella sostanza diventa sempre più “privata”: il dirigente scolastico definisce gli indirizzi generali (già questo un obbrobrio anche rispetto allo sgangherato schema privatistico imposto a tutte le pubbliche amministrazioni, dove il potere di indirizzo “politico” dovrebbe essere distinto da quello gestionale affidato ai dirigenti), sceglie a chi attribuire funzioni (da quelle didattiche a quelle di supporto), eroga premi e irroga punizioni con sempre maggiore discrezionalità. Insomma diventa una sorta di padrone delle ferriere. A questo proposito si è parlato di “preside-sceriffo”, ma a torto perché lo sceriffo è eletto dalla comunità, qui siamo invece di fronte a un preside-podestà, cinghia di trasmissione delle volontà governative che senza intralci dovrebbero discendere dalle infallibili certezze del ministro di turno e, attraverso i dirigenti degli uffici scolastici regionali, giungere fino ai dirigenti scolastici nelle singole scuole dove il loro effetto benefico dovrebbe informare di sé l’informe materia costituita da studenti e studentesse. Una scuola di regime piuttosto che un luogo pubblico dove si incontrano, e si scontrano, idee, mentalità e culture che appartengono a orizzonti diversi e lontani.
Ma c’è un ma, l’ultimo tratto di questa salvifica operazione è ancora gestito da fallibilissimi insegnanti, almeno finché le macchine non riusciranno a sostituirci, e già ci prova l’Invalsi che vorrebbe trasformarci in “somministratori” e “tabulatori”. Docenti che addirittura potrebbero pensare di non allinearsi e non adeguarsi ai diktat ministeriali e mettere in crisi questa imperfetta macchina del consenso.
Ecco allora che la legge 107 prova a spianare le eventuali asperità. Tra le tante cose, le modalità di utilizzazione del personale – quello neo assunto ma anche quello più anziano – possono essere usate come una clava contro i dissidenti, e non lo dicono i Cobas, c’è scritto a chiare lettere nelle diapositive con cui la potente Associazione Nazionale Presidi – A.N.P. istruisce i suoi troppi iscritti: l’incarico temporaneo attribuito dai dirigenti ai docenti, sia per insegnare in una certa scuola (“non avranno la certezza di una scuola vita natural durante, come adesso”, sic!) ma anche per svolgere al suo interno qualunque compito, sarebbe un vantaggio per la scuola per “non avere le mani legate rispetto a docenti contrastivi”.
Non conosco quali siano le fonti letterarie a cui si abbeverano i formatori dell’A.N.P., certo è che recuperare dal lessico della linguistica il termine “contrastivo” e utilizzarlo nel suo significato più generico e corrivo di “oppositivo” dandogli una connotazione negativa la dice lunga sull’incapacità di questi signori di rapportarsi alla realtà, di per sé “contrastiva” e “conflittuale” delle nostre aule e della nostra società. Mentre ogni insegnante, degno di questo nome, verificata la complessità e la difficoltà del fare scuola quotidiano, cerca nel confronto tra pari quella condivisione necessaria a rendere efficace l’azione didattica, anche partecipando consapevolmente agli organi collegiali, questi signori scelgono la scorciatoia della gestione verticistica e “manageriale”, perché, da sempre incapaci di affrontare con il necessario realismo il lavoro collegiale e cooperativo, adesso sperano di scavalcare ogni difficoltà con un autoritarismo che cancella il problema stesso del confronto e della scelta.
Una scorciatoia che si materializza in quel “non avere le mani legate” che comicamente ci scaraventa in una delle gag più riuscite di Maurizio Ferrini che, oltre trent’anni fa, a “Quelli della notte” non sapendo rispondere alle obiezioni incrociava i polsi dicendo, appunto, “abbiamo le mani legate”.
Ma purtroppo quella dell’A.N.P. non è una battuta su cui scherzare. Come ci ricorda Marina Boscaino su MicroMega, essere contrastivi “nel paese di Renzi e Verdini, dei conflitti di interessi e del magna magna a spese dei contribuenti, dei furbetti di tutte le parrocchie, dei trasformismi delle prime e ultime ore, dei partiti che abiurano a tutta una tradizione di principi per cui i propri (improbabili) progenitori hanno sacrificato la vita stessa, non è parametro positivo”.
Ma il corso di formazione dell’A.N.P. ci riserva ulteriori chicche.
Un tono genericamente supponente, del “so fare tutto io”, sia come individuo (“ogni docente è figlio della disciplina, solo il dirigente si affranca da questo limite, il suo ruolo è quello di specialista del generale, riesce a portare a sintesi le spinte individuali”), sia come leader (portare il Ptof “in Collegio Docenti per una discussione, da contenere quanto possibile, non si può rimettere tutto in discussione, evitare mozioni di tipo ostruzionistico o comunque illegittime”).
E soprattutto colpisce la citazione del “don’t ask, don’t tell”, una norma ormai abrogata dell’esercito U.S.A. (la D.A.D.T. policy, appunto) che tendeva a limitare il tentativo di individuare omosessuali o bisessuali non dichiarati, e contemporaneamente escludeva dal servizio militare le persone apertamente gay, lesbiche o bisessuali. Insomma, i formatori dell’A.N.P., non soddisfatti della quota di discriminazione e ipocrisia già presente nella nostra cultura, prendono a prestito dai Marines (un’altra autorevole fonte? “Dignity & Respect – U.S. Army training guide on the homosexual conduct policy”) un “principio” secondo il quale, pur non arrivando a mentire, si occultano informazioni. Che dire? Ci soccorre ancora Ferrini che, sempre in “Quelli della notte”, spiegava “ci sono cose che non si possono dire”. Bene, o forse male, decidete voi, io concludo ribaltando il senso di un’altra celebre battuta ferriniana: “capisco, ma non mi adeguo”. Confido lo facciano in molti.
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